< Cronache dalle terre di Scarciafratta di  Remo Rapino (MinimumFax)

Qui di seguito le recensioni di CronacheDalleTerreDiScarciafratta raccolte col torneo 'nar' (tutte le fasi)

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Bellissima opera triste.

Paola Masaro

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Il libro è ben scritto e la vicenda ci riporta a questa realtà di abbandono tante volte sperimentata nei luoghi più difficili dei nostri Appennini. Io essendo marchigiana sono particolarmente sensibile a queste problematiche. La figura di Mango è particolarmente dolente e pur tuttavia molto umana e ben resa.

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Scarciafratta è un immaginario paese dell’Appennino abruzzese, in seguito ad un terremoto il paese si spopola e rimane solo Mengo (“andate, voi,… resto sulla rocca io) - personaggio già presente in un racconto all’interno di “Vite di sguincio, balenghi sognatori e quasi eroi”- insieme al randagio Scambricò. Mengo rimane isolato fino a quando gli è stato possibile, fino ad un intervento amministrativo del 1968, quando viene portato in una clinica, dove rimarrà fino allo sbarco sulla luna nel luglio del ‘69, quando è “morto in perfetta solitudine, come era vissuto.”
Sotto le macerie del terremoto, Mengo trova un registro, una “sarchiatura di parole” con le storie dei suoi abitanti, una antologia di Spoon River su una rocca, un diario di “memoria e scordanza” di chi viveva su un pizzo di mondo con “lo schiribizzo” di racontare tutto”.

Teresa Catenaro

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Il senso del libro di Remo Rapino è in questo suo frammento: “… la memoria e la scordanza, che ogni cosa si ricorda e tutto si dimentica …” Ma forse sarebbe meglio dire “dei libri” di Remo Rapino, perché ci troviamo di fronte a due diverse storie attraversate dal filo rosso del personaggio di Ruscitti Domenico, soprannominato Mengo.
La prima storia in cui Mengo è il protagonista, è vera poesia nonostante non ne rivesta le caratteristiche formali. Quando i personaggi in divisa, affannati e sudati, si arrampicano verso la Rocca, riemergiamo a fatica nel mondo reale e solo perché vorremmo impedire loro di porre fine alla vita di Mengo.
Da qualunque punto della terra uno legga le parole di Rapino, come all’interno di una immagine di Google Earth vertiginosamente ristretta tra pollice e indice, ci si ritrova assorti nel silenzio della Rocca, tra quei sassi, le erbacce sulle soglie e “quelle pietre stanche, che si aiutavano a vicenda a restare in piedi, lo commuovevano un po’ quasi vi vedesse, in quell’ammasso sgangherato, il passo e la fatica dei vecchi che vanno in gruppo, appoggiandosi l’uno alla spalla dell’altro, i vecchi che si fermano, parlano, si toccano, sospirano, coltivando pause di fiato ...”
Nonostante Mengo viva in mezzo alle assenze definitive di infiniti personaggi, è il cane Sciambricò a conquistarsi di diritto il posto tra quei massi. Con la giovinezza mentale con cui incurante di un corpo malfermo sulle zampe, delle cataratte che offuscano le distanze tra le rive dei fossi e “la schiena tutta sderenata”, Sciambricò rende perfetto il tempo di Mengo per il tratto di vita che percorrono insieme.
La seconda storia è corale e vede i variopinti personaggi ricordati da Mengo, farsi attori principali in una sequenza di racconti che non possono non ricordarci quelli degli uomini e delle le donne sepolti nel cimitero di Spoon River (pur nella infinita distanza culturale e geografica). All’inizio l’ingresso in questa seconda storia è faticoso e non aiuta il fatto che Mengo ci venga riproposto in queste memorie in modo ripetitivo e riduttivo quasi semplice scemo del villaggio, quando è a noi ben chiaro come l’uomo sia arco portante, telaio e capriata di Scarciafratta. Tuttavia, Remo Rapini è un bravo scrittore e, in particolare nei racconti di Uberto Polimante poeta, Colaprisca Ginesio uomo di terra e montagna e Spadafora Corradino lo spagnolo, torniamo a farci trasportare in nuove vite e in vera poesia.

Mariarosa Ventura

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L’idea e la struttura narrativa partono dal momento della morte dell’anziano Mengo per ripercorrere tutta la sua vita a volo d’uccello, in quel fiat che sposta la dipartita a qualche minuto dopo l’effettiva morte. Il narratore, voce prestata a Mengo, è l’infermiere, che per transitività riceve e riferisce il racconto di una intera vita senza aggiungere e togliere niente, senza giudizi, ma coscio del compito che gli è stato affidato. La cronaca è precisa e segue cronologicamente lo svolgersi della vita di Mengo, raccontata senza pause, come un fiume in piena, come se il tempo potesse non bastare a compiere questa missione. In questo fluire rapido, i luoghi della narrazione restano fissi come in una scena teatrale, e sono invece le persone e le loro storie a scorrere davanti ai nostri occhi. Anche se nella rapida narrazione della cronaca non c’è mai una pausa per riflettere su fatti o persone, la storia trova magicamente ordine nella mente del lettore che nutrirà simpatie, antipatie, tenerezza e rabbia per Ninetta e gli altri. Come nei versi rap, la velocità narrativa imprime convinzione e stimola ad una iper-recettività nell’ascolto e nella partecipazione.
Il paese di Scarciafratta, nel II capitolo, viene raccontato attraverso suggestioni emotive della campagna, del cielo, degli animali, dove lo sguardo si posa e il tempo si ferma.
La terra è viva a Scarciafratta e il terremoto lo palesa. Queste pagine sono molto poetiche, alla forza violenta e distruttiva del terremoto si contrappone la forza dolce e lenta della scrittura e del pensiero che terrà in vita i bambini ciascuno con la sua identità, che è anche identità collettiva del paese. Ritorna il terremoto ne La Cosa Brutta, come soggetto narrante, come una delle tante persone vissute e passate da Scarciafratta. È molto evocativo questo passaggio di testimone uomo-natura.
Pagine dolorose per i lettori, nella Cartella Clinica. Mengo, filosofo e poeta, osservatore e narratore è luogo di memoria collettiva, al paradosso è Scarciafratta stesso. Il corpo di Mengo è smembrato quando arriva nella casa di riposo e non può che spegnersi lentamente. Il terremoto, è solo una casualità nella sua fine, la vera causa della morte è la perdita di memoria dei luoghi e dell’identità, il silenzio dell’anima. Lo sbarco sulla luna è l’efficace metafora che sposta dal piano soggettivo (la visione di Mengo) a quello collettivo (gli astronauti in tv), l’alienazione dalla Terra e da noi stessi.

Maria Luisa

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Mi è piaciuta molto l’ambientazione e il linguaggio

Simona Belli

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Circolo dei lettori del torneo letterario di Robinson
di Palermo “Eutropia”
coordinato da Rosana Rizzo
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Scarciafratta. Un nome ruvido, ostico a pronunciarsi per indicare un minuscolo paese di poche anime, pervicacemente aggrappato tra le montagne abruzzesi. E’ un posto che non offre niente, brullo, arido, e però visceralmente amato da chi si ostina ad abitarvi. Qualcuno prova ad andare via da lì per inseguire il sogno (o l’illusione?) di una vita migliore, come accade ad esempio a Nunziatino Covatta “Lu Belgese”, quando si trasferisce all’estero in un paese “dal nome sbarazzino”, Marcinelle. E poi, tutto in una volta, Scarciafratta smette di esistere perché letteralmente sbriciolato dalla Cosa Brutta, il terremoto.  Toccherà a Ruscitti Domenico (Mengo per tutti, un aedo “spasulato”, lo “scemo” del paese) riannodare con voce lirica i lembi della memoria, far combaciare con pazienza le tessere di un mosaico maledettamente poetico e straziante che brulica di “quei nomi, ormai fili d’erba sull’acqua, lenta a scorrere verso il gran mare dell’eterno”. E ad uno ad uno si snocciolano, come filigrana di un rosario, i volti e le voci di quelli che non ci sono più ma che Mengo vede e ricorda ancora: irrompono tra le pagine, con disarmante vitalità, la bella e procace Ninetta Incantalupo, Ginuccio Ticchiotto, aspirante sacrestano, Malvina Capezza, la magara “che non aveva saputo prevedere la sua morte improvvisa per un ruzzolone”, e ancora le voci innocenti dei bambini che sciamano verso la scuola, intenti a scrivere nei loro quadernetti i temi che non completeranno mai. Cronache dalle terre di Scarciafratta è l’epopea bislacca di chi è andato via, di chi resta, di chi è stato dimenticato e di chi ha preferito dimenticare. E’ un romanzo polifonico in cui tutti parlano e tutti hanno urgenza di raccontarsi al lettore, prima che questi volti l’ultima pagina con la gola stretta in un nodo di commozione e di nostalgia.


Neva Galioto

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Una Spoon River  abruzzese in un paese inventato e spopolato (“è che non ci sta più nessuno, qui manco un anima, che non sai più se le cose che vedi, le cose che ascolti sono vere o invece sono finte come le storie che raccontano al cinema”) . Un caleidoscopio di personaggi singolari ed ultimi a  cui Rapino guarda con simpatia ed  affetto: poeti, folli, maghe, orfani, emigranti, prostitute, spiantati .
Una lingua fluida, colta , arricchita di termini dialettali (scianna, balengone etc..) sempre appropriati e mai avulsi dal contesto.
Mengo, è il personaggio principale (un tipo solitario e stranito)intorno a cui ruotano tutti gli altri e che viene rinchiuso  in una casa di cura (Villa Adriatica: un nome marinaro che puzza di pesce morto) negli ultimi mesi della sua vita per il suo continuo parlare, per recuperare il tempo perduto, dei  suoi compaesani e di Scarciafratta ( il paese della musica con un mistero irrisolvibile del nome).  Mengo  sta seduto nella sua stanza d’ospedale  guardando sempre il muro verso la Rocca  e mai verso il mare ; muore guardando il mare lo stesso giorno dello sbarco sulla luna  che per lui è una profanazione ed una perdita.  Mengo era arroccato  sul pizzo più alto della Rocca  del paese in una casa scalcinata  con il vecchio cane Sciandicò  un poco fesso, sempre innamorato di  Ninetta Incantalupo ed  andava sempre in giro , sapendo tutto di tutti e copiando a memoria tutti i nomi persi nello stomaco nero della terra fino a quando nel cinquantotto  improvvisamente  gli si “svalvola il cervello”.   Mengo coltivava due passioni, una per le persone che andavano via, l’altra per le pietre che morivano e difendeva il suo mondo di lucciole(occhi dei bambini)contro la città(gran bordello in cui imbucarsi come pacchi postali) e che avrebbe voluto un’altra vita quella che cammina di notte sulla strada dei sogni.
Intorno a Mengo tanti personaggi, ognuno con il suo mondo: Rosina, abbandonata dal marito (di cui si era persa la semenza), aspetta vanamente  il figlio (Toto trombettiere  morto in Russia a  fare una guerra che non ci capiva una mazza)e  si dà alla prostituzione per sopravvivere, Artemisio Bonaluce , cantiniere e novello poeta ,Tomaso Sparafucile , portalettere irregolare, Peppe Nocella  Spartachetto per via del padre Spartaco,  anarchico che va in Spagna a combattere, Ginesio Colaprisca che per vedere il mare ci rimane secco, il piccolo Brunetto morto per il terremoto ,Uberto Polimante , professorone di storia e nel suo piccolo poeta ,Malvina la magara, e tanti altri passati da una vita ,senza infamia e senza lode, al silenzio della morte come passeretti caduti dal nido.
Il  romanzo finisce con la cosa brutta(il terremoto)che tutto spazza via: pensieri, amori, desideri, vite. Una riflessione originale sul nostro stare al mondo.

Mario Cottone

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Circolo dei lettori
di Roma 6 "Barbara Cosentino"
coordinato da Cecilia Gabrielli
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Un libro emozionante, che aiuta a sognare, un paesaggio che pur nella distruzione mi è parso incantato e
lunare, immaginario ma reale nel desiderio di superare la morte con la ricerca del bello in quello che è il nostro passato, che dobbiamo ricostruire, anche solo nella mente. Il protagonista attraverso lettere, quaderni di bambini, testimonianze cerca appunto di ricostruire la storia del proprio paese e osservandolo io mi sono ritrovata a entusiasmarmi, commuovermi, sorridere. Bello davvero

Angela De Chirico

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Circolo dei lettori del torneo letterario di Robinson
di Rapallo “Amici del libro”
coordinato da Mariabianca Barberis
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Mengo, il protagonista, è attaccato alla sua terra, ai suoi ricordi e al suo unico amore con tutte le sue forze. E’ un uomo aspro come i crinali delle montagne in cui si rifugia. Si esprime con neologismi, un dialetto di un tempo lontano, una lingua rozza ma efficace. L’opera trasmette forza, voglia di lottare, di non cedere anche quando le avversità sono incommensurabili, anche quando la vita scivola via e ci si trova spaesati in una casa di cura.
Mengo è un fiume in piena e accende i riflettori sui fantasmi del passato, paesani scomparsi che hanno affrontato guerre, emigrazione, morte, dà voce ad un paese, ad un’Italia dimenticata con grande leggerezza, come le nuvole sfilacciate sospinte dal vento. Sono lampi di umanità su un passato arcaico, pagine emozionanti che esprimono grandi sentimenti. La prima parte del libro è decisamente toccante, la seconda avvalora la storia di Mengo, con testimonianze corali della vita sulla Rocca tanto amata dai suoi abitanti.

Anna Ferranti

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Un paese abbarbicato sull’Appennino Abruzzese, è un luogo fantasma: la miseria cronica, i cambiamenti sociali e il terremoto costringono gli abitanti ad abbandonarlo, alla ricerca di una vita più decorosa. È rimasto solo Ruscitti Domenico, detto Mengo, che non si rassegna all’oblio e per tener vivi anche i morti racconta le storie dei suoi abitanti, storie vere o inventate, fantasie, sogni, speranze, illusioni. È un incalzante susseguirsi dei pensieri, dei desideri, delle attese di tanti poveri cristi come lui, maltrattati dalla vita, illusi dalla speranza di un mondo socialmente più giusto.
Accanto a momenti di poesia, c’è una continua protesta contro la società (o verso Dio), che permette tanto male e ha distrutto tante vite: Ninetta, la giovane di cui Mengo è innamorato, che morirà nell’alluvione del Polesine; il figlio di Rosina, carne da macello richiamato al fronte e mandato in Russia; Pinuccio Pizzacalla, morto di malattia polmonare contratta in miniera. Sullo sfondo, eventi terribili: la tragedia di Marcinelle, il terremoto che distrugge il paese, l’avvento del fascismo, la guerra civile in Spagna, alla quale parteciperanno gli amici comunisti e dalla quale non torneranno.
Nel racconto delle disgrazie e delle ingiustizie sociali dei vari personaggi fanno da filo conduttore le riflessioni di Mengo, che si apre all’ammirazione delle bellezze del creato pur in mezzo a tanta miseria e che costituiscono momenti di pura poesia.
Da un punto di vista linguistico, il testo ha una impostazione dialettale, con inserimento di termini abruzzesi, come se lo scrittore volesse mantenere vivo anche il modo di esprimersi della sua comunità.
Nel complesso un testo molto triste e pessimista, senza speranza.

Anna Signori

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Scartafraccia è un paese dell’Appennino Abruzzese che subisce eventi drammatici quali, tra i più grandi, Marcinelle e il terremoto. Vengono di colpo spazzati via uomini e cose. Restano solo pietre, un quaderno polveroso, un registro dell’Ufficio anagrafe malridotto. Mengo, unico sopravvissuto, “lo svanito” della Rocca, interroga quelle preziose testimonianze e riscrive la fisionomia della sua terra attraverso un breve ritratto di ciascun abitante. L’uso del dialetto rende immediata ed efficace la fruizione delle vite degli “spasulati”.  La morte è per Mengo una realtà  onnipresente ma non traumatica, sa essere benefica e rasserenante, è una “scurata” ma è anche un sognare fino ad una nuova nascita. Esposizione leggera, garbatamente ironica e profondamente partecipata.

Teresa Ruggiano

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Mengo è l’unico sopravvissuto del terremoto degli anni 50 che ha colpito l’Appennino Abruzzese, distruggendo il paese di Scartafraccia. Trasferito in una casa di riposo sul mare, Mengo continua il dialogo muto con i compaesani, ma sente anche il bisogno di raccontare, di perpetuare la memoria degli scomparsi attraverso una sorta di diario nel quale trovano posto suoni, luoghi, immagini della sua terra e della sua gente. E il dialetto dà vivacità e concretezza al racconto, nel quale si ride e si piange. Quando la morte arriva anche per lui, Mengo si immergerà oltre la linea dell’orizzonte, nel buio nero per riprendere a sognare e attender una probabile rinascita.

Tommaso Santapaola

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Un testo fatto di parole poetiche che sono echi delle sventure della storia del nostro paese.Parole, nella prima parte del libro, messe in bocca allo “scemo del paese” figura ricorrente tra dileggi e tenera protezione nei borghi, quando erano abitati, del secolo scorso.

Mengo appartiene a quel mondo dei “semplici” ma che, proprio loro, sono umanamente ricchi e interessanti e capaci di sensibilità autentica che qui avvince il lettore.Il romanzo tra fiction e realtà inizia e procede in innocenza e trasparenza con cui si attraversano tragedie quali l’incendio di Marcinelle e il terremoto, detto da Mengo “la cosa brutta”. Calore e partecipazione si irradiano per tutto il racconto grazie alla parola e allo sguardo poetici dell’autore nella cronaca di ciò che accade in questo piccolo paese d’Abruzzo in una dimensione di ritorno al passato che appartiene a noi nati più o meno a metà del secolo scorso.Nella seconda parte di questo romanzo corale una sorta di registro del paese dà voce a personaggi che si raccontano in prima persona, gente semplice di campagna rivitalizzata dal potenziale emotivo  
di questa narrazione colta che abbraccia la storia.

Gabriella Vezzosi

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E’ un testo pieno di poesia che scaturisce dalla descrizione  di un paesaggio vero ma anche cristallizzato nell’incanto di un tempo perduto, dalla caratterizzazione di personaggi autentici, Mengo in primis, nella loro semplicità e da una bella prosa sapiente nella sua immediatezza e nel suo scorrere narrativo.
Il racconto attraversa tragedie vere della nostra storia come il disastro di Marcinelle e i terremoti propri delle nostre terre per miseria ed eventi naturali a cui i numerosi personaggi del “registro del paese” danno voce e significato lasciando nel lettore quell’impronta che solo un “buon libro” come questo sa imprimere.

Sonia Taddei

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Alla “cronaca “ si arriva dopo la metà del libro, dopo il lungo e surreale rimembrare del Mengo ricco di divagazioni linguistiche pseudo-dialettali. Poi attraverso l’espediente del Registro  vengono esposte le figure dei personaggi in precedenza citati. Ingegnosi espedienti per raffigurare un disastro e un luogo abbandonato. Troppe strategie di scritture ,per arrivare alla conclusione che (forse ) solo la morte rende liberi. 

Bert

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Gigantesca insalata di parole in libertà, linguaggio onirico, assurdo, molto contaminato da espressioni dialettali incomprensibili ai più. Talvolta volutamente sgrammaticato. Pesante da leggere, l’avrei volentieri abbandonato. Storie di fantasmi, storie perdute, ricercate e “salvate” da Mengo, l’ultimo che ha ostinatamente continuato a vivere nel paesino abruzzese ormai vuoto, devastato dal terremoto, ma abbandonato dagli abitanti già da prima. Storie trascritte e raccontate a modo suo da uno che ormai ha perso la ragione. Storie miste a visioni oniriche e a fantasie demenziali.
Da questa lettura non ho ricavato che fastidio per il linguaggio e amarezza per le vicende umane insignificanti di persone vissute inutilmente in un paesino ridotto in macerie. Dormono sulla collina come nell’antologia di Spoon River che però era più originale e più poetica.
Questo autore è stato pluripremiato e mi chiedo perché.

Giuliana Gabet

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Elaborato dotto, sicuramente. Raffinata collezione di storie di persone sconosciute di un piccolo paese sconosciuto, distrutto dal terremoto. Difficile da leggere, pesante, angosciante. Argomento triste, sono tutti morti dopo un’esistenza per la maggior parte grama. Linguaggio talvolta astruso, esagerato. Immaginifico e spesso incomprensibile per la presenza di numerose parole dialettali. Il protagonista vecchio e quasi demente tenta di dare voce ai compaesani morti perché possano raccontare le loro storie, per rendere meno inutile la loro vita anonima, perché possano esprimere i loro valori umani ormai perduti e sepolti.

Alberto Foresta

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Il romanzo ambientato in un periodo doloroso per la storia abruzzese, quello del post terremoto, presenta una umanità immaginaria, con un intento retrospettivo partendo dal personaggio principale, Mengo, dalla vita particolare perché sopravvissuto al terremoto e continua la sua esistenza ai margini di una società che è popolata da tanti Mengo, spesso ignoranti e non ascoltati. Intorno al solitario protagonista ancorato al passato ed ai suoi sogni, si muovono altri personaggi che, raccontando se stessi, raccontano anche passaggi storici epocali, raccontano la natura nella quale vivono ma che li opprime. Essi sono delineati con linguaggio dialettale e gergale perfettamente calato nel contesto, un linguaggio di “spasulati” che non impedisce all’autore di entrare in profondità nell’animo semplice e sofferente e creare quell’aura di poeticità egregiamente rappresentata nelle pagine di Artemisio, “oste-poeta”

Filomena Martoscia

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Scarciafratta è una Macondo d’Abruzzo. Inerpicata tra i crinali dell’Appennino, è un teatro di fantasmi e di visioni. Un terribile terremoto l’ha svuotata. Le case sono ridotte a rovine. Sulla Rocca resiste per anni soltanto un uomo, Mengo, definito dall’autore come un’anima a parte, sopravvissuto, che vive i suoi giorni senza numeri, insieme a Sciambricò, un cane pastore di quindici anni dagli occhi chiari. Scavando tra le macerie della scuola ha trovato i quaderni dei bambini, ed anche un registro dell’Ufficio anagrafe  «sfastognato di timbri a bollo tondo e di certificati», che un impiegato, aveva riempito di nomi, date, nascite, morti e sposalizi, di tutte le storie perdute del paese. Alla fine della sua vita, per «ridare voce a quelli sommersi dalla morte», Mengo le trascriverà una per una, a Villa Adriatica, la casa di riposo dove viene ricoverato. Fino all’alba del 21 luglio 1969, mentre Neil Armstrong e Edwin Aldrin sbarcano sulla luna, lui, termina di scrivere l’ultima lettera.
 In questo romanzo corale Remo Rapino continua a raccontarci tra risa e lacrime l’epopea degli ultimi, degli «spasulati» e dei folli della sua regione, e a restituire la dignità di un nome a chi è stato derubato anche della memoria.
Interessante la ricerca linguistica presente nel libro con le inflessioni dialettali che bene spiegano e raccontano Mengo e gli abitanti, che furono, di Scarciafratta.

Andre Rovere

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Ho appena terminato di leggere Cronache dalle terre di Scarciafratta, il mio giudizio è  molto positivo ,nonostante non sia il mio genere preferito. Rampino descrive con dovizia di particolari , entra nella vita di ogni personaggio e sembra di averlo conosciuto, ma non manca la poesia.  Una raccolta di forti emozioni che il maestro Fellini avrebbe potuto trasporre cinematograficamente

Viola Villa

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Lo scrittore dà vita a un mondo che si può realmente immaginare e vivere per tutta la lettura. Mengo, lo “stranito”della rocca, non è mai uscito dal suo paese ma sembra conoscere più mondi lui di chiunque altro. Nel suo “testamento “ è come se volesse recuperare il tempo perso e i sogni dei personaggi che hanno abitato quel paese, loro rivivono nelle sue storie con i propri difetti e fragilità, ma anche molta umanità. Linguaggio poetico e molto evocativo, molto belle le descrizioni

Manu Prato

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Scarciafratta è una Macondo d’Abruzzo. Inerpicata tra i crinali dell’Appennino, è un teatro di fantasmi e di visioni. Un terribile terremoto, la Cosa Brutta, l’ha svuotata. Le case sono ridotte a pietre che rotolano e si sfarinano, ma continuano a parlare. Sulla Rocca resiste per anni soltanto un uomo, Mengo, seduto su un uscio sotto un cencio di luna insieme a Sciambricò, un cane pastore di quindici anni dagli occhi chiari. Scavando tra le macerie della scuola ha trovato i quaderni dei bambini, e anche un registro dell’Ufficio anagrafe che un impiegato «frastornato di timbri a bollo tondo e di certificati» aveva riempito di nomi, date, nascite, morti e sposalizi, di tutte le storie perdute del paese. Alla fine della sua vita, per «ridare voce a quelli sommersi dalla morte», Mengo le trascriverà una per una, a Villa Adriatica, la casa di riposo dove viene ricoverato. Fino all’alba del 21 luglio 1969, quando Neil Armstrong e Edwin Aldrin sbarcano sulla luna, e lui termina di scrivere l’ultima lettera.

Mariabianca Barberis

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Grandi lettori
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Sarò sincera, raramente fatico molto a leggere un libro ma, questo per me è stato ostico.
Un romanzo di racconti, con personaggi la cui vita si intreccia a quella degli altri e ai loro punti di vista.
Le vite sono quelle imperfette, in un Italia che non c’è più.
Poteva essere una lettura di riflessione ma a me è mancata l’attrazione per la pagina seguente, non ho trovato fluidità nella narrazione.

Valeria Pedrini

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Grandi lettori
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Sono due libri che parlano di tragedie drammi guerre morte solitudini. E poi saremo salvi mi ha preso sono entrato in empatia la scrittura è pulita chiara rapida regolare scevra da ridondanze. Mi è piaciuto.

Sebastiano Sanguigni

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Scarciafratta è una Macondo d’Abruzzo dove un terremoto un giorno si è portato via tutto. Un solo uomo è rimasto e dopo che viene portato via da lì per andare a Villa Adriatica inizia a dare voce ai suoi ricordi. Testimonianze che parlano di un’umanità montana formata da nomi improbabili, scemi del villaggio, vecchi tromboni, figli partiti per la guerra, preti innamorati e magare.
Un affresco corale, lirico e malinconico, a tratti forse eccessivo. 

Paola Carbellano

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Il secondo libro presenta questo paese e del personaggio principale con le sue allucinazioni reali e immaginarie.Un paese dove i vari personaggi descritti con dovizia di particolari,nonostante questo il mio interesse non è stato costante e non sono stata catturata.

Giovanna Marino

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Circolo dei lettori
di Treviso “5 del 42”
coordinato da Laura Pegorer
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L’autore come un vecchio cantastorie ci narra di un tempo che si scandiva a malattie. Un tempo in cui le pecore morivano, i bambini avevano febbri e mal di pancia in cui si sentivano i passi degli abbandonati dalla vita e i morti riposavano tra i fogli sgualciti di un calendario.
Sono storie di perdenti, queste, di scomparsi che con le loro vite scheggiano il silenzio che è calato su quelle contrade. Cronache di un paese di derelitti che piano piano si svuota lasciando solo ombre e di una vita che si accompagna con l’onnipresente morte.

Nat Mungari

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Noioso, monotono, mancano i dialoghi che movimentano il racconto, scrittura poco scorrevole, racconto poco coinvolgente a tratti superficiale, ovvio, difficoltà di tenere il filo del racconto per continui pensieri che si accavallano.
Risulta interessante durante la lettura trovare frasi scritte nel dialetto del posto, analogamente fastidioso non avere subito la traduzione pronta ma dover cercare alla fine del libro, soprattutto se si legge nel Kindle come capita a me.
I personaggi mi ricordano Mauro Corona L’ultimo sorso, cupi e tristi che vivono in un ambiente ostile e solitario.

Marta Marcazzan

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Nella prima parte dove si segue il flusso dei pensieri di Mengo è tutto troppo ricco e ridondante e il racconto risulta inutilmente pesante.
Nella seconda parte in cui i vari abitanti di Scarciafratta si raccontano la scrittura non cambia mai registro e sembrano tutti la stessa persona.
In alcune critiche questo romanzo viene avvicinato all’Antologia di Spoon River, a mio parere niente di più lontano dallo stile poetico e “lapidario” del capolavoro americano.

Laura Mosele

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La storia si snoda tra descrizioni di luoghi e personaggi, tratteggiati con acume e simpatia, anche se il protagonista dichiarato "Mengo" è in effetti il meno rappresentato. A mio avviso il vero protagonista è il paese, con le sue stradine bianche, le sue case "sgarrupate" invase da erbe e sterpaglie e arricchito da alberi nodosi e frondosi. Una nota di demerito: c’è poca presenza femminile. Non ci sono forse madri, nonne, mogli?

Eugenia Mungari

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Attraverso le parole di Mengo, abitante di un piccolo paese arroccato sui monti e svuotato dal terremoto, riviviamo la sua vita di uomo che non si arrende all’abbandono del luogo natìo ma continua a vivere  tra rocce brulle ed edifici che si sgretolano. Più che un romanzo è una sorta di memoriale scritto seguendo il ritmo dei pensieri e dei ricordi che si susseguono e si rincorrono in una sorta di dialogo tra sé e sé con pause, salti temporali e commenti intrisi di emozioni in un libero accostamento di luoghi e persone seguendo le proprie personali interpretazioni.
Anche la prosa rincorre il filo dei ricordi in un continuo cambio di registri linguistici che ricalca il parlato spicciolo e i modi di dire a metà tra l’italiano e il dialetto. E’ una prosa ipnotica, ridondante, che ti guida lungo la spirale del vissuto del protagonista e che riflette la nostalgia di ciò che non si è fatto, di ciò che si è perduto e la consapevolezza amara di quello che non è più.

Mara Paladini

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Cronache dalle terre di Scarciafratta’ di Remo Rapiro invece mi è piaciuto molto meno:
Nonostante il progetto narrativo sia interessante, encomiabile, e l’autore di tutto rispetto, ho trovato la narrazione troppo dettagliata, soffermata, oltre che frammentata nella sua coralità, per essere piacevole ed interessante prosa.

Roberta Zanatta

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La lingua è tutto in questo romanzo.
Remo Rapino la lavora, la cura, la leviga. Qualche volta ne esce un periodo poetico ma spesso ho avuto l’impressione che l’autore stesse scrivendo per  l’effetto che le parole creavano in lui, tutto preso ad ascoltarsi, e ad ammirarsi, perché in noi che leggiamo …. (E si capiva già subito dalla ridondanza del nome del paesino del titolo: Scarciafratta).
Travolti da anafore epifore metonimie similitudini, ne usciamo malconci.
Perché per la bella immagine dei vecchi che vanno in gruppo e si appoggiano l’un l’altro usa “coltivano pause di fiato” o per la quiete scrive che si “abbarbicava” intorno a invisibili colonne d’aria, perché non il semplice invece del complesso, il togliere invece dell’aggiungere o una bella rasoiata alla Occam? Per non contraddire Flaiano e la sua nota distanza italiana tra due punti? Perché disperdere in artifici sterili delle onde liriche vere? Peccato. Dov’è finito l’editor ???La descrizione dei ragazzi andati al fronte o morti a Marcinelle è incalzante, ma, dietro l’angolo, ci sono, nascosti e minacciosi, i periodi ridondanti che ti fanno sognare Carver: “Si persero tutti, e per sempre, sotto un volo di nuvole sfarinate e di angeli impotenti.”

Laura Pegorer

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Circolo dei lettori del torneo letterario di Robinson
di Bologna 8 “103”
coordinato da Anna Maria Cappelli
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La lingua usata per raccontare questa storia non mi è piaciuta, forse perché mi ha ricordato alcuni libri sudamericani , dove il confine fra realtà e immaginazione è debolissimo.
Chissà forse un giorno riuscirò a riprenderlo e ad apprezzarlo, oggi no

Mara Boschi

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Lo stile di scrittura e il linguaggio usato mi sono piaciuti tantissimo  una abilità tecnica che ho trovato straordinaria, la poetica, l’inventiva, tutto denota grande passione e duro lavoro letterario, appena troppo ricercato. Unico neo, la vicenda, che mi ha poco appassionato, anche se resa in modo straordinario.

Anna Maria Cappelli

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C’è un vecchio ricoverato in un ospizio. E’ seduto e guarda il muro che ha davanti. Alle sue spalle c’è una finestra dalla quale si vede una striscia di mare, ma al vecchio non interessa il mare, vive una sua realtà, un suo mondo. Il suo mondo è fatto di montagne, boschi, vecchie case, vecchi amici, antichi amori, animali e ricordi. I suoi ricordi si intrecciano con quelli dei suoi compaesani che, con parole di saggezza montanara, Compongono la storia di questo strano paese fino alla catastrofe che ha cancellato tutto: il terremoto.  Le voci di chi non c’è più ci fanno conoscere tutta l’umanità di Scarciafratta, di chi non ha niente, di chi ha fatto la guerra e non è tornato, di chi è partito per Marcinelle ed è morto in miniera. Mi sono commossa alle povere parole di questi montanari e di questo paese dimenticato. Ma è esistito davvero Scarciafratta?

Anna Mantovani