* * *
Il romanzo "il figlio fortunato" mi pare meno originale. Storia di provincia italiana che, un po’ squallida e desolata finisce per essere quasi la protagonista del romanzo con personaggi spaesati, disillusi, paralizzati, immobili nel tempo che sfugge loro di mano.
Gisella Turazza
* * *
Ho trovato invece "Figlio fortunato" piuttosto ostico e spaesante - come, del resto, spaesati sono i personaggi- anche per lo stile, con l’uso quasi esclusivo del presente, i periodi spesso monofase organizzati in una sorta di scriptio continua in paragrafi anche molto lunghi, e tantissimi discorsi indiretti.
Antonella Fagherazzi
* * *
Giona Calegari, dopo aver inseguito a Roma il sogno di diventare regista, da 5 anni è tornato a vivere ad Anapola, piccolo paese di provincia, rimanendo intrappolato nella staticità dell’ambiente.
L’incipit del romanzo ci pone di fronte alla morte, nel giorno del suo undicesimo compleanno, del piccolo Elio Lavatori, il “figlio fortunato”, discendente ed erede della famiglia che rappresenta l’ultima esile speranza di mantenere vivo un borgo contadino in decadenza.
La morte del ragazzo porta alla disgregazione della famiglia, dell’azienda e delle ultime speranze degli abitanti. Giona, consapevole del proprio immobilismo e della costante rinuncia a qualsiasi tentativo di immaginare una via d’uscita, finisce per identificarsi con il paese, sempre più in via di disfacimento, e con Silvia, madre di Elio, donna sempre più alla deriva.
Il romanzo, costruito con uno sguardo esterno e una tecnica molto cinematografica, descrive in modo doloroso lo squallore e la desolazione di certa provincia italiana, però risulta eccessivamente statico e ripetitivo per conquistare il lettore.
Renato Mastro
* * *
Un paese e tutti i suoi abitanti alla deriva, invischiati in un gorgo che li trascina inesorabilmente verso il fondo.
Ogni riga descrive la sconfitta di qualcosa: delle speranze che diventano illusioni, dei suoni che diventano borbottii, dei colori che si annacquano.
La vita è altrove; la SS68 è il confine oltre il quale si può intravvedere il futuro contrapposto all’eterna stagnazione, ma è anche la strada che può arrecare la morte e la fine di tutta una comunità.
Scrittura senz’anima, stile forbito che sfiora l’autocompiacimento, tutto giocato nei toni del grigio ghiaccio.
Le emozioni sono bandite, i rumori attutiti e le vite scorrono senza lasciare traccia.
Se si immagina uno scenario, lo si vede in versione post-atomica, popolato da automi “morti-in-vita” che si aggirano senza meta in stato di choc: regna una tristezza infinita per tutto il libro.
Anna Ciccarese
* * *
E’ dall’incipit stesso che Polenchi ci precipita nell’atmosfera cupa e senza speranza di una cittadina di provincia in via di disfacimento. Elio Lavatori, unico rampollo della famiglia Lavatori che con l’azienda di famiglia voleva salvare Anapola dallo spopolamento, muore nella prima riga del romanzo, il giorno del suo compleanno, investito da un icevan. E Giona, l’altra utopia mancata di Anapola, Giona che ha studiato al centro Sperimentale di Cinematografia a Roma ma non farà mai il suo film, passa le sue giornate tra la stanza del motel gestito dai genitori, il bar Migliore, la discoteca, il ristorante Stella. Su tutto aleggia l’inverno che ghiaccia le strade e i cuori dei personaggi, incapaci di slanci verso il futuro. Libro profondo e convincente, seppur di un pessimismo senza speranza. Mi ha ricordato Satantango di Krasznakorkai solo che qui il “salvatore” non è atteso, è già arrivato e il destino lo ha già fatto fallire. Alla fine il lettore si chiede: ma chi è tra Elio e Giona, il figlio fortunato che non ha mantenuto la promessa? Quello ucciso dall’icevan o quello ucciso dal vuoto della vita in provincia?
Cristina Ruggieri
* * *
Sin dalle prime pagine si percepisce un’atmosfera cupa, triste, poco
vitale. Viene descritto un paese qualunque che offre poche opportunità e
appare subito senza colori né speranze.
Le vicende principali del
romanzo si svolgono in una cittadina fantasma: Anapola, una “frazione
del Nulla”. Gli abitanti di Anapola sono essi stessi un po’ fantasmi:
lavorano tutti per l’azienda agricola di proprietà della famiglia
Lavatori, e ripongono le loro speranze nel piccolo Elio, da cui pare
debbano dipendere le generazioni future. Ma la morte prematura di Elio
non sembra sconvolgere particolarmente le persone del luogo, quanto
piuttosto far emergere vistosamente un generale, e forse pregresso,
appiattimento emotivo e mentale (o forse esistenziale). Ogni giorno è
uguale all’altro, e tutto si ripete incessantemente nel tempo, ma in un
tempo che pare essere fermo e senza possibilità di cambiamento. I
personaggi vivono una vita devitalizzata, in cui si intravedono solo
sfumature di grigia desolazione, in assenza di alterazioni del ritmo.
Giona, che pareva aver tentato di realizzare un futuro glorioso di
regista, in realtà fa presto ritorno ad Anapola, forse perché manchevole
di entusiasmo e tenacia o forse semplicemente perché è difficile
emanciparsi ed allontanarsi dal sentiero predefinito a cui si è
predestinati.
E così vari personaggi sembrano trascinarsi in giornate
vuote, fatte di lavoro - non piacevole né faticoso - e di un tempo
libero sempre uguale, non modificabile. Un forte senso di cupezza
trasuda dai personaggi, anche dai giovani che appaiono privi sia di
speranza sia di emozione e vitalità.
Anche le tragedie sembra siano
vissute in maniera apatica, distaccata, gelida: il piccolo Elio viene
investito da un furgone frigorifero (quale metafora più appropriata per
rappresentare il congelamento delle emozioni). Un personaggio che a
tratti pare essere più tormentato è Silvia, la madre di Elio, che è
afflitta non dalla perdita precoce del figlioletto, quanto dal non aver
scelto lei di diventare madre. In fondo nessuno sente di aver fatto
alcuna scelta di vita, come se rimanere nel posto in cui si è nati e non
fare nulla non fosse in fondo anche questa una scelta.
Anna Paladino