< La solitudine del sovversivo di  Marco Bechis (Guanda)

Qui di seguito le recensioni di LaSolitudineDelSovversivo raccolte col torneo 'nar' (tutte le fasi)

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Molto coinvolgente, drammatico per la contrapposizione tra "normalità" della vita da studente dell’autore e atrocità perpetrate impunemente dalla milizia governativa su chi ritenevano essere un nemico dello stato argentino. Un punto di vista interno ai fatti che ho trovato molto interessante.

Elisa Pezzani

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La lettura de La solitudine del sovversivo è estremamente fluida, le parole scorrono e i fatti si susseguono velocemente. Lo stile è schietto e capace di trasportare il lettore: mentre si legge sembra che l’autore, ripercorrendo gli avvenimenti, riviva anche le sensazioni provate. Trovo il romanzo molto interessante e arricchente dal punto di vista storico poiché narra una parte di storia dell’Argentina estremamente spiacevole e tuttavia poco conosciuta. Lo ritengo un libro imponente dal punto di vista letterario in quanto autobiografico, e come espediente di riflessione e intuizione dell’autore su se stesso.

Beatrice Pelliccioli

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Circolo dei lettori del torneo letterario di Robinson
di Rapallo “Amici del libro”
coordinato da Mariabianca Barberis
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La solitudine del sovversivo é un libro autobiografico, che descrive in modo molto crudo ed intenso il  periodo buio dei “desaparecidos” in Argentina.
Il protagonista é un uomo tormentato dal suo passato, percio’ che ha vissuto all’età di vent’anni durante il sequestro e la sua breve prigionia. La sua vita e il suo lavoro sono legati e segnati da quegli eventi, l’autore sembra sentirsi anche in colpa per essere sopravvissuto, a differenza di diversi suoi amici/conoscenti. La sua traumatica esperienza é stata per lui fonte di ispirazione per la sua professione di scrittore e regista, lavori attraverso i quali ha potuto elaborare e riflettere su ciò che ha vissuto e lasciarne a tutti noi una valida e importante testimonianza anche se molto dolorosa.

Clizia Canavese

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Scampato alla fine peggiore, per un sovversivo, durante il regime militare di Videla in Argentina. Con film (da regista) e riscrittura, l’autore  non ha voluto,  né potuto dimenticare le atrocità subite dai suoi amici
Verità cruente, descritte con maestria, nonostante l’Horror". Tanto, da portare al termine la fluida lettura fino a "Giustizia fu fatta", dopo 33 anni. Ottimo libro

Viola Villa

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Ho iniziato a leggere questo libro e subito ho avuto molta difficoltà  a procedere x la crudezza dell’argomento, Torture etc.. durante la cattura del protagonista del1977 all’epoca della dittatura militare in Argentina. Ho voluto leggerlo fino alla fine nonostante tutto, ne esce un ritratto molto umano del protagonista che essendo scampato alla morte grazie a raccomandazioni di suo padre, non si da pace per tutti quegli amici  che non sono stati salvati. Il cinema gli dato la possibilità  in parte di poter sopperire a questa sua tragedia umana e facendo Garage Olimpo ha potuto raccontare molte storie di amici sfortunati. A distanza di 33 anni ha testimoniato in tribunale e i carnefici sono stati condannati. Giustizia e stata fatta finalmente. Interessante dal punto di vista storico voto ottimo.

Pasquina Covelli

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Questo libro mi è piaciuto molto, l’ho trovato davvero interessante, come interessante infatti è la vita dell’autore di cui ammetto non sapevo nulla.
Inizialmente ho pensato fosse una sorta di thriller, pian piano è emerso invece che era lo scrittore stesso a raccontare la sua vita, partendo dalla sua infanzia fino ai giorni d’oggi, attraverso i suoi innumerevoli viaggi e avventure, più o meno piacevoli, in tutto il mondo.
Si affronta il tema della politica negli anni in cui in Argentina le ingiustizie erano all’ordine del giorno e cominciavano a nascere i primi disordini anche in Italia.
Bechis partecipa molto a questa attività politica e di rimostranza, convinto che sia necessario prenderne parte, allo stesso tempo si sente molto distante da chi però vuole ottenere qualcosa con la violenza.
Dal momento del suo rapimento anche una volta in salvo dovrà convivere con il fantasma di questo suo trauma, e anche con un senso di colpa per esserne uscito intero, quasi fosse un privilegiato rispetto a i tanti che non ce l’hanno fatta. Questo diventa lo scopo della sua vita: denunciare le atrocità commesse verso altri esseri umani e farlo in modo che il dolore non resti una denuncia fine a se stessa, ma lasci una traccia nelle coscienze di chi lo guarda.
Molto ben scritto, mi ha incuriosito e sicuramente andrò a guardarmi ii suoi lavori cinematografici.

Manu Prato

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Circolo dei lettori del torneo letterario di Robinson
di Rapallo “Amici del libro”
coordinato da Mariabianca Barberis
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Recensione Un giovane uomo e la sua storia a cavallo tra passato e presente.A tratti, presenta una suspense narrativa molto avvincente.
Da leggere con attenzione per carpire e collocare nella giusta posizione fatti e personaggi che si intrecciano nei flash back narrativi.

Andreina Rovere

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Sono stati scritti migliaia di libri e girati altrettanti film sulla crudele e sanguinosa dittatura che sconvolse l’ Argentina negli anni ’70 e ’80, eppure ogni volta leggerne uno (vedi Elsa Osorio, I vent’anni di Luz!) o vedere un film ci getta in una angoscia profonda, in uno sconcerto che solo noi europei nati dopo la guerra e abituati alla libertà e alla democrazia siamo in grado di provare. Il libro autobiografico di Marco Bechis non fa eccezione, per molti come me nati nello stesso anno di Bechis, ci fa provare sentimenti intensi, emozioni profonde, angoscia e dolore, come solo in quegli anni i giovani di quel paese e del vicino Cile, hanno provato.  19 aprile 1977. All’uscita della scuola dove studia, Marco Bechis viene sequestrato da un gruppo di militari in borghese. Ha vent’anni. Il racconto della sua tragica avventura esistenziale comincia  qui, ma così come se  quel giorno fosse un punto di accumulazione, Bechis ci fa arrivare a quel punto partendo dalla sua infanzia, dalla sua formazione, dalla sua famiglia cosmopolita, tra L’Italia sconvolta dalle convulsioni degli anni 70 e 80 e l’Argentina avviluppata nella tragedia della dittatura  militare che ha cancellato il peronismo ma soprattutto  una generazione, la nostra.  Bechis  finisce in un carcere della polizia segreta Tramite canali pseudo diplomatici attivati dai genitori, ottiene la libertà, e torna in Italia. Ma lui è un sovversivo sopravvissuto, che ha ottenuto la libertà e la vita che tanti altri suoi amici e compagni hanno perso: e così di fronte a se stesso  Bechis diventa un traditore. Solo scrivendo questo libro, riesce a chiudere i conti con se stesso e a capire di essere stato, anche lui come tanti, una vittima. Questo libro ci dà il profilo comune della gioventù rivoluzionaria maturata in quegli anni in quel continente,  e Bechis diventa così una voce unica, quella di un paese ma soprattutto  di un’intera generazione, testimone lucido, nell’aula del tribunale di Buenos Aires, che ha affrontato i suoi carcerieri alla sbarra, scegliendo di  testimoniare con il cinema, con un libro, e con se stesso come accusatore, per dare giustizia ad una generazione anziché annullarsi nel buio del dramma vissuto.

Leonardo Pinzi

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Grandi lettori
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In questo libro Bechis ci rende testimoni di ciò che significava vivere nell’Argentina degli anni settanta, del fare politica e dei rischi che correvano chi si opponeva al governo dell’epoca. Anche coloro che non erano coinvolti direttamente ma che gravitano attorno ai luoghi caldi e alle persone più esposte vedevano la loro vita radicalmente trasformata nel momento in cui un loro caro veniva sequestrato. Ed è proprio questo che traspare dalle pagine di questo libro: la tensione, la rabbia, l’angoscia e la paura provati dal protagonista, dalla famiglia, dagli amici, che ci tengono incollati alle pagine fino alla fine.

Camilla Camilli

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Gruppo di Lettura del torneo di Robinson
di Perugia “Arcipelago Libri”
coordinato da Carlo Floris
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In questo libro l’autore si mette a nudo narrando in modo meticoloso la sua vicenda che lo ha segnato per il resto della vita.
Alla sua idea di sensibilizzare gli individui attraverso una crescita lenta a partire dall’infanzia che lo spinge all’inizio a studiare per diventare insegnante elementare in quei posti dove la sopravvivenza era all’ordine del giorno, si contrappone un’idea di riuscire a svegliare le coscienze attraverso il suo futuro lavoro di regista attraverso i suoi film più rappresentativi.
Da una famiglia medio borghese, l’autore si distacca come a voler intraprendere un suo personale percorso ma che non coincide con quella violenza di un gruppo armato ma piuttosto si identifica piu con un’idea precisa e meno violenta di una visione particolare di una società attraversata da decenni di repressione dittatoriale.
La minuziosa descrizione che poi sfocia nella testimonianza finale in un tribunale particolare, delinea una figura decisa a voler cambiare una società che non voleva saperne niente o che cercava di nascondere per paura una situazione troppo difficile da affrontare senza rimanerne coinvolti.
Le condanne finali poi non restituiscono allo stesso, quel senso di libertà che sperava di riacquistare alla fine di questo lungo percorso ma che poi forse, riuscirà grazie all’aiuto della sua famiglia acquisita…
Ritengo questo libro molto interessante dal punto di vista storico ma anche umano dove una persona che ha passato periodi della sua vita mettendo a rischio se stesso i suoi familiari e i suoi amici, senza sapere fino all’ultimo se potesse uscire vivo da una situazione complicatasi per motivi personali, riesca a trasmettere al lettore quei momenti tragici e quelle sensazioni che lui si porterà dietro per tutta la vita senza mai riuscire a metabolizzare.

Filippo Berruti

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Una testimonianza forte, da cui emerge il bisogno urgente di raccontare e raccontarsi. Nella narrazione si intrecciano con ritmo incalzante ricordi d’infanzia, sogni, incubi, atrocità dell’esperienza vissuta, senso di colpa per essere sopravvissuto, al contrario di migliaia di altri desaparecidos. La militanza rivoluzionaria mai completamente condivisa è uno degli elementi che sottendono per l’autore la ricerca della propria identità, per dare un senso alla propria vita. Il lettore entra subito in sintonia e non può assolutamente restare indifferente.


Ada Marchesini

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Marco si è sempre sentito più argentino che italiano. Nonostante la cittadinanza italiana ereditata dal padre (la madre era di Santiago del Cile), trascorre l’infanzia tra Brasile e Argentina e in giovinezza fa la spola tra Torino, dove il padre si è stabilizzato in quanto manager della Fiat, e la sua patria d’elezione, l’Argentina, all’epoca investita da travolgenti fermenti politici. Marco ha 22 anni e tanti ideali: partecipa alle lezioni serali di una scuola a Buenos Aires e vuole diventare maestro elementare nelle comunità di indigeni al confine con la Bolivia. Una vita normale, all’interno della quale l’entusiasmo per la costruzione di una società diversa, con maggiore partecipazione sociale non è che una componente. Eppure è il 19 Aprile 1977 e la sua esistenza prenderà una piega del tutto inaspettata: il sequestro all’uscita della scuola serale, il trasporto in un luogo di detenzione non meglio identificato a causa della benda che gli viene prontamente posta sugli occhi, un primo interrogatorio, infine la prigionia in quello che a posteriori si rivelerà essere il Club Atlético, uno dei numerosi campi segreti di detenzione destinati agli oppositori politici della dittatura militare di Rafael Videla. Ci ritroviamo subito a percorrere in un tutt’uno con il detenuto i luridi sotterranei del campo, i sensi rimasti sono costantemente all’erta per carpire quante più informazioni possibile: il rimbalzare incessante di una pallina da ping-pong da qualche parte in lontananza, la sensazione di umido e di sporcizia delle superfici della cella, l’eco delle urla di chi a turno viene sottoposto alla temibile picana. Il tempo del racconto è dilatato perché il terrore fa vivere ogni secondo con l’intensità di un’intera esistenza, tanto che quando dopo “solo” una settimana il prigioniero viene a sapere che (per intercessione del padre e per i suoi contatti con industriali vicini al potere politico) verrà liberato purchè non faccia più ritorno in Argentina, al lettore così come al protagonista sembra essere trascorsa un’eternità. Le peripezie per raggiungere l’aereo che lo ricondurrà finalmente dopo 4 mesi in Italia occupano altre numerose pagine, e chi legge si ritrova con il fiato sospeso nell’agonia di una liberazione che sembra imminente ma che non arriva mai. Nella restante parte del romanzo il ritmo narrativo rallenta e si ripercorre la storia dell’uomo che il protagonista è diventato: un regista affermato che documenta gli orrori del regime argentino tramite film e mostre, il quale però non riesce mai a liberarsi dell’angoscioso dilemma che dà senso al titolo: “perché io sono sopravvissuto e tanti altri no?”. Neanche il processo a cui testimonierà contro i suoi aguzzini e che si risolverà con una serie di condanne all’ergastolo riuscirà a placare quell’inquietudine, quel senso di profondo rimorso per essersi salvato mentre compagni e coetanei altrettanto innocenti perivano tra atroci sofferenze. In seguito al processo Marco Bechis si accinge alla stesura di questo magnifico romanzo che si legge tutto d’un fiato grazie a una prosa essenziale eppure mai scarna, disseminato di riflessioni personali, politiche, sociali, familiari che ci toccano profondamente. Una scrittura per sua stessa ammissione catartica, nata proprio dal bisogno di espiare un opprimente senso di colpa e per mezzo della quale l’autore riesce a riappropriarsi effettivamente e definitivamente della propria vita.

Eleonora Ficola

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Una storia sofferta, quella di Marco Bechis, dura da metabolizzare anche dopo averla già raccontata per immagini nei film. Passa alla scrittura cartacea forse proprio per liberarsene, o per riconciliarsi con quel passato burrascoso vissuto sotto la dittatura argentina, e insieme per rendere onore ai suoi genitori, coinvolti inconsapevolmente in quel dramma. “Che differenza c’è fra una tragedia personale e una collettiva, tra una madre che trattiene il dolore per sé e una che cammina con altre condividendo il suo?”. I suoi genitori hanno già perso un figlio e riescono a salvarne un altro, mettendo a rischio anche la propria vita. Guardando indietro ai suoi vent’anni, l’autore non trova molte differenze fra i gruppi armati italiani e quelli argentini: hanno, dice, il disprezzo della democrazia borghese, intruppandosi in una struttura militare dove le gerarchie decidono per i singoli. Non li condivide e viene espulso, si ritrova “non più compagno… su un’isola galleggiante senza identità”. Bechis è nato in Sud America, figlio di un funzionario italiano che, dopo aver lavorato a lungo in Argentina, ritorna in Italia. Quel passato argentino porterà Marco a tornarci dopo il diploma, contrariando il padre che ben conosce i pericoli della dittatura militare. Si ritroverà, senza grandi colpe, nelle terribili prigioni di Videla, sarà torturato e rischierà anche la pelle. Solo l’intervento paterno, facendo leva su vecchie amicizie, lo strapperà a quelle atrocità. In patria non accetterà di tacere. Si batterà prima a distanza, rivelando ciò che sa, poi, dopo la caduta della giunta militare, nei tribunali argentini, senza timori e reticenze.

Luca Antonio Catoggio

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Storia di una potenza incredibile, questa raccontata – non sempre con stile impeccabile, bisogna ammetterlo - da Marco Bechis. Certo, solo Dell’Arti può considerarla fiction e inserirla nella narrativa italiana. Certo, è una narrazione, chi lo nega, ma troppa autobiografia, e la parte più prettamente narrativa – i sogni – sono stati aggiunti su consiglio dell’editor. Ripeto, storia però potente che si fa leggere davvero volentieri, col fiato sospeso e con i muscoli tesi, perché svela gli anni terribili in cui in Argentina potere politico e militare si fusero e commisero atrocità devastanti, anni in cui si scompariva per un niente, per un sospetto, per aver partecipato a una manifestazione, perché qualcuno aveva fatto il tuo nome, in cui la tortura con la picana ti faceva tirar fuori nomi, luoghi, delitti, qualsiasi cosa. La storia dei desaparecidos narrata da chi c’era, e da chi – lo confessa, il narratore – è stato fortunato a nascere in una famiglia con contatti importanti, e per questo si è salvato.


Carlo Floris

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Una sorta di romanzo di formazione che pian piano si rivela un’autobiografia, per poi diventare un saggio e una cronaca asciutta di denuncia sociale.
Inizialmente non molto lascia presagire che l’autore stia raccontando di se stesso, ed è come se anche la scelta stilistica voglia riflettere il pudore dell’essere un sopravvissuto, il sentirsi colpevole invece che vittima.
A soli vent’anni, poco dopo essere uscito dalla scuola, a causa di presunte attività sovversive viene rapito da un commando militare e trasferito nei "sotterranei". L’autore rende palese l’impensabile: l’esistenza di un vero e proprio campo di concentramento nei bassifondi della città, che come un cuore pulsante nascosto, un’anima nera sconosciuta o negata, è teatro di interrogatori, processi sommari e soprattutto torture. Prima fra tutte la picana, strumento in origine utilizzato per indirizzare gli animali tramite piccole scosse elettriche, ma che in mano alla polizia argentina, con dedizione e perizia scientifica, diventa mezzo per provocare dolore attraverso le parti più sensibili in modo da costringere praticamente chiunque a confessare e fare i nomi dei complici.  Chi resiste dimostra onore e lealtà, chi cede è un vile. Lunghi giorni e mesi di prigionia si susseguono, in un isolamento narrato in maniera essenziale, in cui i contatti umani sono negati e un solo sguardo, rubato, da solo può significare tutto: solidarietà e fiducia, ma anche timore e diffidenza: nemico e amico sono etichette labili e dai confini sempre più sfuggenti. Grazie a una felice scelta stilistica dell’editore, pur senza negare che il romanzo avrebbe meritato ulteriori aggiustamenti e qualche limatura, la trama si snoda in un percorso non lineare e il lettore scopre solo man mano i risvolti tragici di un’infanzia e poi adolescenza privilegiata solo in apparenza: la morte del fratellino, i rapporti difficili con i genitori, il senso di precarietà di un’esistenza a tratti apolide, a tratti in perenne fuga o esilio dalla patria del cuore. Spaccati di altre giovani vite, morti e sparizioni improvvise, delazioni, sospetti, un clima di continuo terrore che diventa quotidianità, completano un quadro straniante che rende difficile poter credere e ammettere che tutto ciò sia realmente successo. Bechis inizia allora a usare il suo vero nome, e pur nella consapevolezza che è stata la sua posizione di privilegiato a garantirgli la sopravvivenza, al contempo non può esimersi dal fare i nomi di chi sapeva e non ha fatto nulla per porre fine al massacro, limitandosi ad agire solo in maniera circoscritta e personalistica. Interessante la sezione centrale, in cui l’autore racconta gli sviluppi per la realizzazione del film di denuncia e l’avvio della carriera nel cinema. Toccante la parte finale, in cui a distanza di anni dai fatti narrati accetta, non senza difficoltà, di testimoniare al processo e riesce a denunciare in maniera accorata quanto avvenuto. Una denuncia mai schierata a priori: l’autore prende le distanze da chi nel suo gruppo aveva scelto la violenza a prescindere. Una denuncia su cui aleggia il dubbio, soprattutto alla luce dell’attentato che aveva causato la morte di quattro poliziotti: "che colpa avevano?", dirà più tardi uno dei sequestratori, abbattendo, anche solo per un istante, il muro che separa la vittima dal carnefice, l’amico dal nemico.

Elisabetta Bertoldi

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Potrebbe essere il racconto del ragazzo della porta accanto… quello che Marco Bechis fa dell’esperienza terribile, impossibile da accettare e quasi da credere, vissuta nelle carceri argentine nel periodo che va dal 1977, durante il quale sono state perpetrate le più vili efferatezze nei confronti di giovani che osavano ribellarsi al regime.
Marco Bechis racconta quasi sottovoce… i toni, anche nelle descrizioni più crude sono bassi, le vicende sembrano vissute da un altro, una distanza utile e necessaria per permettere di condividere tanto dolore.  Un tono alto, incapace di tenere a bada sentimenti tanto dolorosi non avrebbe potuto produrre questo scritto.
La dicotomia tra i sotterranei clandestini, dove vite umiliate nell’animo e nel corpo sono il rovescio di una stessa medaglia, di quella città che apparentemente si muoveva nella normalità, soprattutto perché erano in molti a far finta di non sapere.
In alcuni passi la descrizione di fatti anche molto deludenti, come quando il prigioniero Bechis ha l’opportunità di uscire dal carcere per tornare a casa, ma ad un passo dall’aereo, ci si accorge che il suo passaporto è stato scambiato con un altro e così la sua libertà si allontana ancora, la sua reazione è comunque anche in questo caso senza enfasi, tra il tacere ciò che sente e la rassegnazione ai fatti.
Questo narrare così pacato fa apprezzare ogni parola, ogni sensazione esplicita o sottintesa, producendo nel lettore uno stato d’animo di accoglienza, perché l’autenticità, mai inquinata da eccessi, fa sì che questo periodo storico- politico venga compreso nella sua assurda incongruenza, fino a chiedersi il limite tra il sentimento umano e la bassezza a cui si possa giungere.
Più che un romanzo è una cronaca, un’agghiacciante cronaca!
Anche il processo contro i carnefici, celebrato parecchi anni dopo il vissuto di tanti eccidi, ha l’idea di un punto a tanto abominio più che di una vittoria.

Maria Sofia Aversa

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Marco Bechis ci racconta la sua storia complessa e dolorosa. Lo troviamo bambino in Argentina, ci descrive i suoi ricordi infantili e fra tutti emerge il tragico incidente in cui perde il fratellino e la sua famiglia si congela nel dolore. Cresce poi fra l’Argentina e l’Italia: rivive gli anni inquieti dell’adolescenza e della vita da giovane adulto irrequieto e ribelle. Mentre la sua famiglia decide di trasferirsi definitivamente in Italia, lui contro tutti torna a vivere in Argentina. Qui trascorre le giornate in locali fumosi e senza una vera meta verso cui aspirare. Fino a quando comincia a frequentare un gruppo di giovani di opposizione del gruppo dei Monteneros e inizia a collaborare con le loro azioni di protesta, non condividendo però pienamente i loro modi di agire e il principio delle vittime collaterali. Un giorno la sua vita si ferma: come prigioniero politico viene arrestato in un carcere clandestino dove subisce diverse angherie prima fra tutti la picana e la perdita della speranza di sopravvivere. Questo episodio lo segnerà in modo indelebile, condizionando irreversibilmente la sua vita da adulto.
Romanzo indubbiamente ben scritto e di buona qualità. Ho trovato però lo stile troppo asettico: Bechis racconta la sua storia come fosse una cronaca, non riuscendo a suscitare, almeno in me, delle vere emozioni.

Francesca Fanucci

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Il libro non sembra scritto per intrattenere il lettore ma solo per informarlo sulla storia dei desaparecidos argentini (vissuta in prima persona dall’autore) e sconvolgerlo. L’effetto però non è quello disturbante e partecipato che si sarebbe potuto ottenere mettendo in scena gli eventi ma una lettura distaccata data attraverso il filtro del racconto, difatti i dialoghi diretti sono quasi totalmente assenti.
Che il libro non sia costruito come un romanzo lo testimonia anche il fatto che gli episodi non siano restituiti nel classico arco dell’eroe, che si conclude a metà libro, ma secondo il reale svolgimento temporale che manca della climax necessaria.

Valentina Federici

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Recensione: Una narrazione incalzante, sospesa tra realtà e pensieri offuscati dalle condizioni in cui si trova il personaggio principale, DONA al lettore la necessità di non potersi interrompere. La medesima vicenda, tra l’altro, pone l’accento su di una serie di tristi eventi che hanno caratterizzato, nel succedersi, la storia dell’Argentina. Il lasso di tempo interessato fa si che si riesca anche ad avere un quadro completo: inizio tragico e finale dettato da una giustizia, non esaustiva, ma che comunque ha posto l’accento sul carattere brutale del POTERE in cui la violenza umana ha il sopravvento in antitesi con la malattia epocale di voler cambiare il mondo. Rosario Colaizzi Napoli
GIUDIZIO: Ottima prosa scorrevole che pone l’accento, tra l’altro, con il periodo storico in cui la stessa generazione voleva modificare l’assetto sociale e politico del mondo ricevendone, spesso, risposte violente e riproposizione dello status quo.

Rosario Colaizzi

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Marco Bechis con questa narrazione mette un punto fermo, per quanto possibile, alla lunga stagione esistenziale segnata dall’arresto e dalla tortura subite durante la dittatura militare argentina, dalla liberazione e quindi dall’esperienza di reduce combattuto tra esigenza di giustizia e senso di colpa per essersi salvato. Il libro ripercorre la vicenda personale dell’autore restituendo in maniera efficace non solo le dinamiche interiori da lui vissute ma anche il clima culturale e politico dell’epoca, specialmente dei giovani argentini, e italiani, in un momento storico di grandi speranze, di grandi scontri, di violenza e di illusioni infrante. Un libro utile e necessario, che fa venire voglia di approfondire la storia di quel periodo e di vedere i film dell’autore.

Roberto Falciola

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Marco viene sequestrato dai militari in Argentina e, dopo trent’anni, trova il coraggio di raccontare la sua tragedia e la sua vita.
Si mette a nudo come durante una seduta di psicoanalisi e descrive la sua vita con fatti precisi, ma anche con sensazioni che ci trasmette. La scrittura è veloce, asciutta, inesorabile e alterna i toni del thriller e del racconto storico.
Mi sono sentita coinvolta, calata nel racconto e, dopo averlo concluso, ho avuto bisogno di tempo per metterlo in prospettiva. Ho trovato la parte relativa al ritorno in Italia meno coinvolgente, ma nel finale ritorna l’intensità della scrittura.

Marina Fazzari

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Non ho particolarmente apprezzato il libro, ma non posso neanche dire di averlo disprezzato. La narrazione filava. Il problema è che non mi ha lasciato quasi niente, se non la curiosità di andare a ripassare quel pezzo di storia, la voglia di andare a rileggermi Gabriel García Márquez e inoltrami finalmente in Borges.

Viola Manni

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Marco Bechis è un regista e sceneggiatore italiano nato in Cile, che ha vissuto a lungo in Argentina durante il periodo del generale Jorge Rafael Videla. Proprio qui negli anni ’70 viene sequestrato e imprigionato per diversi mesi. La solitudine del sovversivo è una lenta discesa nei ricordi di quei mesi drammatici. Ha venti anni Marco Bechis quando frequenta la scuola serale di specializzazione per diventare maestro elementare. Quella sera è insieme a Dayin la ragazza di cui è innamorato e con cui ha appena fatto pace, organizzano una cena per cercare di dare una direzione a quel rapporto così altalenante fra di loro quando vengono aggrediti da dei militari in borghese. Dayin la lasciano andare, Marco no. Viene buttato tra i sedili di un Ford Falcon e comincia a essere picchiato fin da subito. Dopo un breve in tragitto si ritrova in un magazzino, insieme ad altre centinaia di persone in uno di quei posti tristemente famosi come camere di tortura, quelle prigioni clandestine che hanno segnato per sempre la storia del paese sudamericano.

Il libro è qualcosa che va al di là della cronaca dei fatti. Si alternano il racconto delle torture fisiche e psicologiche e i flashback del passato di Bechis, con il ricordo dell’amato fratellino scomparso prematuramente  e il rapporto con i suoi genitori. Si giunge alle analisi delle circostanze che lo hanno portato fin lì e alle possibilità di riuscire ad andare via in condizioni dignitose. Il libro diciamolo pure è un pugno allo stomaco. Si apprende la crudeltà, si impara cos’è la picana, si scende nell’abisso del terrore di non uscire vivo da una situazione o di uscirne a pezzi, fisicamente e mentalmente.
Non conoscevo nessuno dei due autori e quindi credo di essere stato molto neutrale, ho cercato i loro nomi solo dopo aver letto entrambi i libri.

Gino Pisotta

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Preferito: La solitudine del sovversivo


La solitudine del sovversivo

Ci sono alcune storie che è difficile dimenticare, la vita di Marco Bechis è una di queste.
Un’emozionante autobiografia dal sapore romanzesco.
Lo stile risulta incalzante e scorrevole, di facile lettura e, sopratutto nella prima metà, estremamente appassionante.

L’autore racconta la sua vita in una sorta di diario che ripercorre tutte le fasi più catartiche fin dalla prima infanzia, si parla della sua famiglia, molto anche delle sue origini e di quelle molto diverse di padre e madre.
Un attenzione particolare viene data alla contestualizzazione dei vari luoghi differenti che via via lo accompagnano e si nota in attenzione particolare e nostalgica verso tutto ciò che riguarda l’Argentina.
Gli amici, la perdita di un fratello e i trasferimenti sono tutti tasselli importanti alla ricostruzione del puzzle della sua vita, ci fa entrare nella sua testa e nella sua intimità senza filtri, spesso autogiudicandosi anche in maniera troppo dura e poco lucida.
Molti sono gli sbalzi temporali e le riflessioni che interrompono i singoli momenti ma ciononostante seguono sempre un unico flusso di pensiero, rendendo la lettura comunque molto lineare.
Il ritmo cala drasticamente nella sezione che riguarda la sua esperienza artistica e il suo percorso da regista, ma fortunatamente circoscritto a una breve parentesi della narrazione. Capisco perché ovviamente fosse necessario inserire anche quelle fasi ma forse lo stile è diventato leggermente più piatto e le esperienze più ripetitive in quel frangente.

Indubbiamente più interessante il come si arriva a diventare quella persona piuttosto che cosa fare una volta raggiunta la consapevolezza.
Conoscevo a grandi linee la storia dei desaparesidos, ma grazie a questo testo ho potuto approfondirne molti aspetti scavando più a fondo in questo buio momento, così paradossale quanto doloroso. La tragedia nella tragedia, l’uomo che in maniera cosciente e completamente innaturale riesce a massacrare la sua stessa specie, tutto questo viene affrontato con grande delicatezza e apprezzabile umanità, chiudendo il cerchio a processo concluso.
È stato un esperienza di lettura istruttiva è molto interessante.
Il fatto che non sia una semplice ricostruzione storica ma una testimonianza concreta ha reso l’esperienza meno didascalica e molto più coinvolgente.

Ludovica Maccaferri

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Sarebbe banale dire che è una storia necessaria, però questa autobiografia, praticamente, di Marco Bechis è davvero significativa.
È vero che forse c’è un eccessivo profluvio di parole, ma si percepisce anche nel modo in cui è formattato il testo, una necessità di dire, di comunicare, di far sapere al lettore tutto quello che è successo.
È un libro più di fatti che di emozioni, ci sono tante informazioni, tanti accadimenti che a volte si fa fatica a ricordare, è difficile stargli dietro, però vuoi provarci, e vuoi sapere alla fine com’è andata la testimonianza di Bechis, se gli aguzzini hanno pagato, se giustizia, per quanto possibile, c’è stata.
Come nei suoi film, l’emozione cerca di essere trattenuta, c’è l’urgenza di raccontare, i sentimenti ci sono ma sono superati dai fatti.
Un libro importante, difficile, coinvolgente.

Vittorio Iansiti

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Ho iniziato a leggere La solitudine del sovversivo con un po’ di timore.  Quando ho capito che l’autore ci avrebbe raccontato la sua esperienza vissuta nelle carceri dei desaparecidos durante il regime di Videla, ho temuto la descrizione delle torture e delle violenze. In realtà, quello che ho trovato in queste pagine è il ritratto molto umano del protagonista, combattuto tra gli ideali di pace e libertà e la logica della militanza sovversiva. Marco era un giovane di buona famiglia, ed è proprio la famiglia a salvarlo: come dimenticare la dignità dolorosa della madre che assiste il figlio in carcere fino alla fine, con esemplare determinazione? Nell’atrocità delle prigioni, sotto la minaccia della picana, anche la solidarietà tra detenuti viene meno, perché salvarsi equivale a tradire. Una lettura per certi versi indispensabile per conoscere il nostro passato e le storie di resistenza e redenzione che ci riportano qui.

Renata Enzo

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Il racconto degli anni più bui vissuti dall’Argentina fatto da chi li ha vissuti in prima persona. Coinvolgente ma non troppo, a volte un po’ troppo lungo nelle descrizioni. L’argomento mi è sempre interessato tanto da aver voluto visitare Cile ed Argentina. Mi aspettavo un romanzo ho trovato un report a volte anche freddo. Non so perchè ma l’autore non è riuscito a trasmettermi l’orrore che deve aver provato. Indubbiamente un testo di denuncia ma forse oramai siamo tutti un po’ anestetizzati dalle continue notizie di orrori che i media ci vomitano addosso quotidianamente.

Gabriella Soresi

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Autobiografia di Marco Bechis che ci racconta la sua vita fra Cile, Brasile, Italia e Argentina. Pretesto è il sequestro a Buenos Aires da parte della polizia e da lì Bechis ci racconta la storia della sua vita facendolo in prima persona. Dalla morte del fratello ai suoi amori alla sua famiglia e ai suoi amici sovversivi avvicinandosi al movimento di opposizione dei Montoneros che lo porterà al sequestro e alle torture. La scrittura è scorrevole, ma anche troppo descrittiva e confusionaria. Si evince una forte dicotomia: Marco si sente eroe e traditore, colpevole e innocente e la sua irrequietezza viene trasposta al meglio nelle sue parole. Purtroppo, però, non mi ha coinvolta come speravo.

Eliana Tripaldi

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Circolo dei lettori del torneo letterario di Robinson
di Marostica “Insieme per leggere”
coordinato da Liliana Contin
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Ci sono stati dei momenti in cui credevo di non riuscire ad andare avanti, è stata una lettura sofferta e dura, ma valeva la pena di arrivare fino in fondo.
Argentina, anni 70, Bechis ci ha fatto entrare in una delle dittature più terribili del secondo 900. I quattro mesi di inferno vissuti nei garage sotterraneri in condizioni disumane, con l’ossessione continua della tortura, ci hanno mostrato tutta l’atrocità delle dittature avvenute come in un sottosuolo dove si toglie identità, si violentano i corpi, si abusa di potere.
Il racconto si sviluppa in un movimento spazio/ temporale continuo tra i tempi del sequestro, la vita personale prima e dopo, le vicende familiari, il contesto storico.
E’ anche un romanzo di formazione per le grandi domande che il giovane si pone: come essere protagonisti di un cambiamento politico, partecipando alla lotta armata o diventando maestro di scuola elementare in Sud America? Questa e altre domande vengono alla luce e interrogano anche noi lettori.
Bechis sa raccontare con profondità  il senso di colpa e la solitudine del sopravvissuto dato che li ha vissuti e che lui si è salvato.
Questo confronto continuo fra ragioni private e la dimensione collettiva/ pubblica di un preciso tempo storico, diventa la centralità della biografia che Bechis rivolge al lettore.

Teresa Santini

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Marco Bechis racconta la sua vita segnata profondamente dai gravi fatti accaduti negli anni settanta in Argentina, con migliaia di persone “scomparse” durante regime militare. Storie di abusi, sevizie, torture e morte inflitte agli oppositori del regime, anche solo sospettati di esserlo, senza alcuna possibilità di sottrarsi al carcere e all’isolamento, alla paura di non ritornare più alla vita là fuori e di subire su corpo e mente il terrore e il dolore delle torture.  Marco ha amici che si mobilitano, ha un padre dirigente industriale che ha conoscenze influenti che lo faranno uscire, marchiato indelebilmente dalle sofferenze patite. Il suo racconto è nitido e coinvolgente. I suoi ideali rivoluzionari lo porteranno a fare scelte impegnative, a scontrarsi con la famiglia, a pagare di persona un prezzo molto alto che lo porterà a ricercare negli anni successivi il senso profondo di quanto accaduto nei sotterranei segreti della milizia, a lui e a tutti gli altri, e a comunicarlo attraverso il cinema, gli incontri e infine a testimoniare in Tribunale in  Argentina difronte a quei militari arrestati alla caduta del regime e indagati per crimini contro l’umanità.

Maria Mabilia

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Questo è un racconto e per scriverlo ho tradito persino la mia lingua. Finisce così lo splendido e inesorabile testo di Marco Bechis, che conoscevo e ammiravo come regista di “Garage Olimpo” e “Figli/Hijos”, film indimenticabili e puntuali sul dramma dei desaparesidos.
La scrittura è agile e coinvolgente, con salti temporali efficaci, in un crescendo di stati d’animo perfetto. Non si cede mai alla retorica in questo libro, tutto è così spontaneo, e i dubbi che l’autore pone anche al proprio operato e alla propria sorte è segno di una grande onestà intellettuale.

Carlo Bonato

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Conoscevo il nome di Marco Bechis per aver visto anni fa il suo film “Garage Olimpo” che svelava gli orrori della dittatura di Videla in Argentina. In seguito ho seguito le tracce delle “abuelas de plaza de majo” nell’appassionata ricerca dei desaparecidos e anche per questo l’argomento del libro mi ha subito coinvolto. Il racconto è scritto in uno stile che definirei “giornalistico”, senza fronzoli né compiacimenti, ma comunica una tensione che non ti molla mai, in tutti i piani temporali della vicenda autobiografica. Si “vedono “ le scene, di vita quotidiana come la detenzione e la tortura, attraverso le parole volutamente semplici  ed efficaci che arrivano al cuore del lettore, o almeno al mio cuore, senza filtri né attenuazioni.
E’ un libro storico che mette di fronte ad avvenimenti ancora inesplorati fino in fondo e che devono essere svelati nella loro crudeltà, sperando che ciò possa servire a rendere un po’ migliore l’umanità che lo legge.
Sono grata a Marco Bechis per averci fatto partecipi con tanta sincerità della sofferenza sicuramente patita nel ricordare scrivendo.

Rosanna Tasca

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Non conoscevo Marco Bechis se non come regista del documentario “Rumore della memoria del 2015. È stata, quindi, una sorpresa leggere delle sue tristi vicissitudini. Una vicenda terribile che lui racconta da quando il 19 aprile 1977 a Buenos Aires venne sequestrato da una squadra di militari in borghese e imprigionato nei sotterranei del Club Atlético, uno dei campi di concentramento clandestini del regime di Videla, il “mondo di sotto” dove regnano la violenza e la tortura, ma anche la manipolazione. L’accusa era quella di essere un rivoluzionario vicino al movimento oppositore dei Montoneros.  Grazie all’intercessione di un industriale argentino, amico del padre, dirigente della Fiat che aveva lavorato in America Latina, riesce a salvarsi.
Ma rimarrà in Bechis per sempre una sorta di sindrome del sopravvissuto, un forte senso di colpa e di inadeguatezza che gli fa scrivere anche in questo testo autobiografico “La mia pelle muta sempre, sono l’eroe e nel contempo il traditore” […] “Se io sono qui ancora a parlare, vuol dire che tutti gli altri sono morti”. Un libro duro, intenso, ma straordinariamente “vero”.

Liliana Contin

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Quando ho iniziato a leggere questo libro avrei voluto subito richiuderlo, mi sentivo incapace di affrontare gli eventi a cui si riferiva. Anche ora in qualche parte del mondo sicuramente uomini perpetrano efferate violenze su altri uomini. Il male sembra non avere mai fine.
Poi mi sono detta che nel 1977 anch’io avevo poco più di vent’anni e il cuore pieno di sogni di un mondo più giusto. E l’ho riaperto. Ho ripercorso con Marco uno dei troppi gironi infernali che l’uomo ha dovuto attraversare.
Un libro lucido, pieno di dolore senza accanirsi sul dolore. Il dolore fisico, il dolore di essere sopravvissuto a tanti giovani che non potranno mai raccontare la loro storia.
E infine la necessità di raccontarsi, di passare in qualche modo il testimone, di sconfiggere ”la solitudine del sopravvissuto”.
Il mio papà diceva “la guerra non si può raccontare”. E forse noi non vogliamo che ce la raccontino.
È un libro che, invece, deve viaggiare, essere letto. Non è un libro autobiografico, è un libro che ci mette di fronte ancora una volta “ all’essere umano bifronte” e ci interroga chiedendoci quale faccia vogliamo mostrare al mondo.

Laura Primon

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Finalmente un libro che non è un giallo con una indagine per scoprire il colpevole di un delitto, e non è una storia d’amore fra due persone dello stesso sesso.
In questo racconto l’autore parla di una sua esperienza vissuta nel 1977 in Argentina quando fu fatto prigioniero è torturato da apparati specializzati dell’esercito che arrestavano i componenti dei gruppi armati che lottavano contro il regime.  Dal carcere il protagonista con l’aiuto del padre che aveva legami con l’ambiente governativo viene liberato, ma per il resto della sua vita elabora il momento e non si capacita di come lui ne sia uscito, mentre molti dei prigionieri sono morti.  Ma la vita a fatica continua e lui che fa parte della generazione che ha visto i cambiamenti tecnologici soprattutto nel settore della fotografia e del cinema usa questi mezzi e elabora la sua esperienza prima con una mostra  fotografica fatta con foto polaroid e poi con il cinema. Libro da leggere per cogliere le riflessioni di un regista su una generazione e sui cambiamenti sociali di fine Novecento.

Irma Dionese

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Il libro è una straordinaria testimonianza di quello che è stata la violenza politica in Argentina negli anni 70 del Novecento.
Nella prima parte lo scrittore racconta la sua vita di adolescente, figlio di padre italiano e madre cilena, che vive in modo agiato tra Italia e America Latina. E’ l’Argentina il paese che Bechis considera suo e dove sceglie di abitare senza rendersi veramente conto di quello che sta per accadere.
Si sente che Bechis è regista perché lavora anche qui sul montaggio: non racconta i fatti cronologicamente, ma inserisce continuamente dei flashback, alternando i ricordi del sequestro, della prigionia nei terribili sotterranei del Club Atlético, alla sua vita a Milano, agli studi universitari, al processo, dopo trent’anni, contro i responsabili dei crimini della dittatura al Tribunal Oral Federal di Buenos Aires. Qui, potendo guardare in faccia i suoi aguzzini, si sente finalmente una” vittima” e non un “traditore”.
Con sguardo lucido racconta non solo il suo dramma, ma quello di un popolo e di un’intera generazione eliminata dalla storia.

Mario Guderzo

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Libro potente questo di Bechis.
Molte volte, e in forme diverse, il tragico destino dei sopravvissuti è stato analizzato e raccontato: è la dura condizione di chi ha vissuto eventi duri, ingiusti, che segnano indelebilmente e che condannano per sempre al ricordo e alla reminiscenza, tra senso di ingiustizia per quanto si è vissuto e senso di colpa per quanto, a differenza di tanti altri, si è superato.
Già la visione del film Garage Olimpo (dello stesso autore), aveva smosso in me un sentimento empatico, rispetto all’enorme fatica fatta, per l’intero arco della vita, da chi ha vissuto simili esperienze.
Voglio pensare che questo libro sia stato scritto per auto-terapia…in fondo l’Argentina di fine anni ‘70 è stata narrata innumerevoli volte.
Voglio augurarmi che la testimonianza approfondita e reiterata sia essa stessa medicina e consolazione e che l’accesso a tale pensiero risponda alla domanda “perché a me?”  che sicuramente dilania e spieghi il destino di certe condizioni umane.

Laura De Marchi

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Libro che racconta la prigionia nel campo di concentramento club di Atletico di un Italo-argentino sopravvissuto alla dittatura argentina. La prima parte molto interessante, la seconda un po’ meno con parecchie ripetizioni.

Maristella Drago

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La solitudine del sovversivo è una biografia completa che inizia con grande tensione, scritta con ritmo incalzante e lucido. L’autore ci racconta il suo vissuto e la sua colpa per essere sopravvissuto rispetto a tutte le persone scomparse. Attraverso la sua vicenda personale ci rende partecipi della storia dell’Argentina dei desaparesidos.
Nomi, luoghi e persone creano la storia, ma anche il suo percorso artistico e in qualche modo catartico.

Graziella Pivotto

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Circolo dei lettori del torneo letterario di Robinson 
di Palermo “Eutropia” 
coordinato da Rosana Rizzo
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La mia generazione, la cui adolescenza è trascorsa anche cantando le canzoni degli Inti Illimani e confutare la comunicazione governativa, trova in questo libro una bellissima fotografia di un’epoca piena di mostri, apparentemente trascorsa ma non lontana e, per dirla come Brecht, il grembo che li produsse è ancora fecondo.
Scritto con trasporto e pathos, episodi di vita raccontati con credibilità ed emozioni rappresentate come speranze anche nel momento della disperazione più buia. Infatti è in questa stessa disperazione che si coglie la voglia di rivalsa, non individuale ma di un intero “popolo di pensiero” capace di lottare e non fermarsi neanche di fronte alla morte certo di sopravvivere al terrore della dittatura.
In questo trovo utile il suo film Garage Olimpo che contiene la voglia di futuro ben oltre la semplice “cura” che rappresenta per l’autore, come la positiva fine dei suoi sensi di colpa quando dopo un trentennio, testimoniando, ha contribuito alla condanna dei suoi aguzzini e di fatto del regime che li copriva e sosteneva.


Giuseppe Riccio

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Con questo libro, di notevoli qualità narrative, l’autore ci racconta del suo rapimento, subito nel 1977 dal regime militare Argentino, quando aveva vent’anni, del suo “prima” e del suo “dopo”.
La sua infanzia ed adolescenza, vissuta fra Italia ed Argentina della dittatura militare, prima al seguito della famiglia che vive in America latina per seguire il lavoro del padre, e poi come atto autonomo di identificazione con la cultura argentina.
Poi, dopo il sequestro, la prigionia e la scarcerazione, tutta la vita adulta da sopravvissuto, alla ricerca di un’uscita dal “carcere mentale” in cui è vissuto dopo la liberazione, con i sensi di colpa verso le centinaia, se non migliaia, di giovani che non ce l’hanno fatta.
Questo libro è sia un opera artistica che un atto politico di accusa e liberazione, cosi come scrive lo stesso Bechis: “L’arte non può fare a meno della politica, sto iniziando a coniare una mia personale maniera di fare arte e quindi politica, l’azione artistica è intrinsecamente politica, altrimenti non è.”.
È un libro sulla memoria, sia di analisi che di accusa, ma anche un libro introspettivo lungo il percorso di accettazione e liberazione, sia dal carcere reale che mentale, che ci porta sino all’atto finale di testimonianza al processo che vede alla sbarra i carcerieri del regime e, fra questi, anche di uno dei suoi aguzzini.
Libro intenso, scorrevole, di grande contenuto sociale.

Salvatore Balsamo

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Desaparecido: scomparso peggio che morto. Il morto lo vedi, lo puoi piangere, lo puoi seppellire. Lo scomparso no: vivrai sempre nella speranza di trovarlo ma sai che probabilmente sarà torturato, umiliato e barbaramente assassinato. Della tragedia dei desaparecidos sapevamo solo quello che la stampa, la televisione riportavano e qualche rara pubblicazione italiana sull’argomento. Marco Bechis con questa sua testimonianza ci fa rivivere questa tragedia con grande partecipazione riportando la sua esperienza vissuta in prima persona. Nato in una famiglia borghese ( padre italiano e madre cilena) con la tragedia di un fratello morto in un assurdo incidente, decide di ritrasferirsi in Argentina dove ha vissuto la sua infanzia e parte della adolescenza. L’era Peron è tramontata ed il paese sta andando incontro alla dittatura di Videla. Marco è combattuto: vorrebbe partecipare al movimento di resistenza al regime (i Montoneros) ma non riesce a condividere la lotta armata e preferisce andare in una scuola per bambini perché gli sembra socialmente più utile . I suoi contatti con amici coinvolti nella resistenza lo tradiscono e viene catturato dalla polizia argentina, in borghese. Ci racconta con estrema lucidità, precisione e pathos la sua breve esperienza in una prigione argentina dove viene sottoposto ad un iniziale tortura con la “picagna” (scariche elettriche a basso voltaggio per non uccidere ma torturare) : gli odori, i rumori delle catene e del ping pong, le grida, gli sguardi sono segnati indelebilmente nella sua memoria. Le amicizie altolocate del padre permetteranno la sua liberazione che avviene in modo rocambolesco. Marco tornerà in Italia ma questa esperienza segnerà la sua vita determinandone il percorso; sarà sempre tormentato dal rimorso di sentirsi un privilegiato rispetto ai suoi amici che hanno perso la vita e dalle immagini dei corpi lanciati dagli aerei e dalla picana. Diventerà un regista regalandoci un film prezioso come Garage Olimpo. Il racconto raggiunge il suo apice quando Marco viene convocato dopo 33anni per testimoniare contro i suoi torturatori che saranno condannati. Per Marco sarà la sua espiazione. Un romanzo autobiografico catartico che fa sentire mediocri le nostre vite.


Mario Cottone

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Buenos Aires, 19 aprile 1977.
Buenos Aires, 6 luglio 2010.
Tra queste due date si gioca la vicenda esistenziale e umana di Marco Bechis che, con "La solitudine del sovversivo*, costruisce un’autobiografia che sfugge ai limiti del genere letterario per diventare di volta in volta thriller, affresco storico e generazionale, memoir che si addentra nelle emozioni del protagonista e che indaga gli aspetti più nascosti e quasi inconfessabili della psicologia dei vari personaggi.
La prima data è quella del  "prelevamento"di Marco Bechis, appena ventenne, da parte di militari in borghese del dittatore Videla, a motivo di sue contiguità con i Montoneros (sovversivi dei quali in realtà condivide gli ideali rivoluzionari, non i metodi violenti). È la data che fa da spartiacque tra la vita e una "non vita" trascorsa nei sotterranei del Club Atlético, uno dei campi di concentramento segreti dove gli oppositori del regime vengono sottoposti a violenze e sevizie, tra le quali la terribile tortura della picana, scariche elettriche che annullano ogni residuo di volontà e di scelta. 
Ma da questo inferno il giovane Marco alla fine esce, grazie all’intervento di un padre autorevole,  un dirigente della Fiat che ha lavorato tra Cile, Brasile e Argentina, e che riesce a muovere le pedine giuste per ottenere la liberazione del figlio.
Ottenuta l’insperata libertà, non finiscono i tormenti per l’autore, che da "eroe" sente di essere divenuto un "traditore" in quanto sopravvissuto ai compagni e a migliaia di altre persone meno fortunate di lui.("La mia pelle muta sempre, sono l’eroe e nel contempo il traditore (…). Se io sono qui ancora a parlare, vuol dire che tutti gli altri sono morti”).
In questa seconda parte del romanzo, il punto nodale è segnato da un’altra data, 6 luglio 2010. A trentatré anni di distanza, nel Tribunal Oral Federal di Buenos Aires si celebra il processo ai responsabili dei massacri, accusati di crimini contro l’umanità.  Lui è chiamato a testimoniare. 
È da notare che in tutto il romanzo l’autore non segue uno schema cronologico, gli episodi si mescolano con frequenti flashback, e vengono raccontati, quasi come in un flusso di coscienza, per obbedire a due imperativi categorici. 
Il primo è raccontare ciò che è realmente accaduto, la verità storica contrapposta al silenzio forzato dei desaparecidos e a quello "violento", come viene definito, dei loro aguzzini che molti anni dopo siedono al banco degli imputati. Un silenzio assordante, cui contrapporre parole, fatti, nomi, dettagli. 
Il secondo obiettivo, anch’esso dettato da un’insopprimibile esigenza interiore, è quello di elaborare il proprio vissuto per riuscire ancora a "vivere con gli altri" rinunciando a quell’oscuro istinto che lo spinge verso il vuoto, e che ha già cercato di contrastare con i suoi film, primo fra tutti Garage Olimpo, in cui tratta quello stesso periodo. 
Ma adesso può  narrare la sua vicenda in prima persona, poiché il linguaggio letterario supera i limiti del linguaggio cinematografico, in primis grazie alla possibilità di espressione diretta dei propri pensieri.
Con un linguaggio assolutamente non retorico, privo di sentimentalismi ma ricco di pathos l’autore si sofferma a lungo sulle sue elucubrazioni razionali che s’infrangono contro il pensiero malato e distorto dei  carcerieri, sulle  riflessioni sul dilemma borgesiano eroe-traditore, ma anche sui suoi rapporti familiari e personali, in uno sforzo catartico di mettere a nudo se stesso per riuscire a ritrovarsi. 
È un racconto, tra storia individuale e collettiva, che cattura, affascina e coinvolge, regalando al suo autore (per sua stessa asserzione regista di professione, "non" scrittore),  una sua degna collocazione nell’ambito della letteratura contemporanea di denuncia civile. D’altra parte, che un’opera d’arte - e dunque anche un’opera letteraria - debba coincidere  con la vita, è esplicitamente espresso dallo stesso Bechis quando scrive (p.215) : "L’arte non può fare a meno della politica”.

Eliana calandra

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Utilizzando una prosa nevosa e lucida Marco Bechis conduce il lettore attraverso il labirinto dei suoi ricordi al fine di risolvere il dilemma della sua vita: un sopravvissuto è un traditore? Thriller ma anche romanzo storico e biografia, il romanzo di Bechis ricompone i tasselli della sua tragedia personale in un continuo alternarsi di flash-back spazio-temporali tra ricordi antichi ed eventi più recenti. Durante il periodo della dittatura di Vileda in Argentina, un fatidico giorno di aprile del 1977, il giovane Marco, appena ventenne, è rapito, all’uscita della scuola per maestri da lui frequentata, da un gruppo di poliziotti in borghese , da lì è condotto, bendato, in un locale sotterraneo da cui egli comprende subito che pochi riescono ad uscirne vivi. Bechis ci riuscirà dopo quattro mesi di fame, sofferenze e torture inaudite , tra tutte, la pratica della picana con cui i prigionieri, denudati e legati su una tavola, sono sottoposti a scariche elettriche di varia intensità. Marco riacquisterà la libertà grazie al suo passaporto italiano ed alle influenti amicizie del padre, dirigente Fiat a Milano, ma con una carriera sviluppatesi anche in Brasile ed Argentina. L’opera è suddivisa in tre sezioni con stile e caratteristiche diverse: la prima parte, relativa al periodo della formazione del ragazzo, della sua detenzione ed ai dettagli della sua liberazione ha un andamento veloce ed avvincente, da thriller, il ritmo è concitato, gli avvenimenti si susseguono in un crescendo di drammaticità, la narrazione è spietata e l’autore non risparmia nulla al lettore. La seconda parte è la gestazione di un dolore: Marco sente di essere un traditore perché è rimasto vivo, ripensa agli amici con cui aveva condiviso gli ideali di rinnovamento politico, ai Montoneros, a Pablo, a Muňeca, ai vari compagni della prigione lasciati al “ Club Atletico “ e sente rimbombare in mente la domanda postagli l’ultimo giorno: “ Chi sei? Perché te ne vai? Chi sei?” . L’incontro con Enrique Ahriman lo aiuta a cercare una risposta alla sua sofferenza nell’espressione artistica, la settima arte sembra offrirgli il modo di placare in lui questo complesso del “ sopravvissuto “ per trasformarsi in testimonianza visiva da offrire al mondo. Bechis narra dunque della gestazione della sua coscienza ma anche della sua carriera cinematografica, dai primi documentari alle collaborazioni con Fellini, al deludente incontro con Borges che resta indifferente al racconto dell’esperienza da lui vissuta al Club Atletico, sino alla realizzazione di film importanti tra cui “Garage Olimpo” sugli orrori della dittatura in Argentina, sui desaparecidos e sui tanti morti precipitati nel Mar della Plata. “…porto nell’anima una ferita profonda per tutto quello che non è successo e mi poteva succedere e per tutto quello che invece è successo a migliaia di altri.” scrive Bechis. Questa sofferenza che traversa tutta la sua vita , il sentirsi un privilegiato e dunque un traditore perché vivo, l’isolamento che ne deriva, tutto ciò si risolverà, alla fine, nel momento in cui egli decide di testimoniare di presenza contro i suoi aguzzini nel processo de 2010 svoltosi al Tribunale Oral Federal di Buenos Aires; sarà solo in quella occasione che egli comprenderà finalmente di essere un sopravvissuto ma , di fatto, anche una vittima: “ …dopo tanti anni vissuti come un usurpatore, come un traditore perché sopravvissuto agli altri, finalmente sono diventato una vittima.” Il lungo elenco di nomi dei condannati , nella terza parte del libro, sembra scandire e marcare con forza il compiersi di questo processo; trenta anni dopo la sua prigionia. Il libro diviene, dunque, strumento politico, l’ultimo atto di una testimonianza di vita che è, anche, denuncia di un regime dittatoriale e delle atrocità perpetrate in Argentina in quegli anni. Il ragazzo agiato che preferisce alla comoda e lussuosa carriera di ingegnere in Italia quella di maestro in Argentina perché convinto che, per operare una vera rivoluzione sociale e formare le coscienze, si dovesse partire dall’educazione dei bambini, realizza infine se stesso in campo artistico, come regista di film quali “ Garage Olimpo” o“ Hijos” . Il romanzo è denso di emozioni e potente come un pugno nello stomaco, obbliga il lettore ad apprendere la verità di quegli anni senza edulcorazioni e senza sconti; forse qualche lentezza nel ritmo della seconda parte, ma il contenuto e la sincerità della sofferenza vissuta e descritta così magistralmente permettono di scusare qualche pecca. 

Rosella Balsamo

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Il 19 aprile del 1977 il regista e sceneggiatore Marco Bechis, allora studente appena ventenne, sparisce; viene sequestrato nell’Argentina della dittatura militare a causa della sua vicinanza al gruppo dei montoneros che si oppongono al regime e rinchiuso nel “Club Atlético”, uno dei tanti campi di concentramento sotterranei e clandestini che ingoia nelle sue viscere centinaia di cittadini argentini perché vengano torturati e sterminati. Grazie all’intervento dei genitori, il padre, dirigente della FIAT arriva fino al generale Guillermo Sua’rez Mason che è a capo di tutto il territorio di Buenos Aires, Bechis si salva e dopo aver vissuto le sevizie fisiche e psicologiche della prigionia, impiega tutta la sua esistenza successiva per risalire dall’inferno e riappropriarsi della propria umanità. Non basteranno, infatti, l’esilio in Italia, i viaggi in America latina, la militanza politica, l’incontro con l’arte e la cinematografia che daranno corpo all’urgenza di denunciare le nefandezze del regime, il processo contro diciassette degli aguzzini della “Tripla A” per superare la sindrome del sopravvissuto e trarsi fuori da una interminabile catabasi; occorrerà far ricorso alla funzione catartica della scrittura, alla puntualità della parola scritta per leggersi dentro e chiamarsi vittima, parola che finalmente lo accomuna a tutti i desaparecidos che non sono riusciti a salvarsi. “La solitudine del sovversivo” non è solo un’autobiografia o un romanzo di formazione e di denuncia civile, ma una forma di scrittura terapeutica che segue percorsi non sempre lineari ma i moti e le esigenze espressive dell’autore e mi piace pensare che Bechis abbia scritto innanzitutto e finalmente per sé. 

Annalisa Cannata

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Quando un libro, come un film, un quadro, o uno spettacolo teatrale ti tocca nell’animo, l’emozione che ne scaturisce ti segna: la rivivi ad ogni ricordo, la condividi con chi merita, la conservi gelosamente. Si, questo libro ha lasciato in me un segno.
La solitudine del sovversivo è un testo asciutto, crudo e preciso. Il racconto dei mesi di prigionia disumana fatta di torture fisiche e psicologiche che riemerge dai ricordi lucidissimi dell’autore è stato per me un ‘pugno nello stomaco’. Una generazione di aguzzini (fascisti) ha inflitto tutto ciò ad una generazione di giovani liberi argentini (Bechis allora aveva vent’anni), alle loro madri e persino ai loro figli. L’essere scampato ad un sorte peggiore (giù da un volo militare come centinaia di desaparecidos) diventa per l’autore un’ulteriore condanna, un punizione perpetua.
Bechis non cerca compassione ne’ ‘assoluzioni’, racconta lucidamente i suoi ricordi, espone con sincerità la sua determinazione ma anche le sue incertezze giovanili. Del lunghissimo periodo di dura prigionia nel sotterraneo segreto in cui è stato bendato 24 ore al giorno, ha i ricordi di un non vedente(solo suoni, vibrazioni, sensazioni, calci, pugni, offese). Questi racconterà al processo, trent’anni dopo dove molti colpevoli furono condannati. Della sua vicenda personale, vissuta nell’area antagonista italiana, l’autore espone anche i suoi dubbi sull’efficacia della lotta armata e violenta, in Argentina come in Italia. Il libro da ancora voce, senza supponenza, ad una generazione combattente, che ha scelto la non violenza pur avendo vissuto in prima persona la ferocia di un regime criminale e illiberale.

Marco Beccali

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La solitudine del sovversivo è il racconto autobiografico della discesa agli inferi e della lentissima risalita alla vita di un uomo salvatosi dalle carceri segrete del dittatore argentino Jorge Rafael Videla. La storia di Marco Bechis , sviluppata in un arco temporale lungo trenta anni, si articola  per piani paralleli, in maniera serrata e senza sbavature, rispondendo all’esigenza di un racconto individuale  che nel contempo riesce ad essere  la storia di una generazione in lotta. La prigione sotterranea nella quale il giovane Bechis sarà condotto dopo la cattura diventa caverna che sevizia ed inghiotte giovani vite resistenti; la tortura, il sangue, la carne offesa a morte non si vedono, ma si sentono e si percepiscono in modo indiretto: una macchia di sangue rappreso sul muro, il rumore dei corpi che sobbalzano percossi dalle scosse elettriche, incontri di sguardi tra condannati a morte e l’incongruità del male attraverso il rumore di una pallina che rimbalza incessante su un tavolo da ping pong. Ma la pietà, il dolore ed il senso di colpa non fermano la capacità di analisi dell’autore sulle scelte di lotta non sempre condivise: la solitudine del sovversivo sarà tale prima, durante e dopo la prigionia, la scelta di lotta attraverso la educazione ed il rifiuto della lotta armata sono la costante politica del sovversivo che rifiuta l’appartenenza acritica . Un libro duro, una scrittura che si arricchisce della capacità descrittiva di chi sa raccontare per immagini e suoni.

Rosana Rizzo

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Un romanzo autobiografico che, tra ricordi e flashback, ci fa vivere i momenti più duri della vita dell’autore, quando, approdato da giovane idealista in Argentina, viene sequestrato dagli scagnozzi del dittatore Videla, a capo di una delle dittature più feroci del ‘900. Il lettore si ritrova coinvolto nell’angoscia del giovane Bechis che, trascinato per quattro mesi nell’inferno dei garage sotterranei (già descritti nel suo film “Garage Olimpo”), sin dai primi momenti, quando viene portato in una delle camere della tortura; qui, legato “nudo su un tavolo di ferro, con le gambe spalancate e i genitali a disposizione di chiunque”, chi legge viene coinvolto suo malgrado nella temuta attesa della c.d. picana, l’ordigno elettrico utilizzato per torturare i sequestrati. Un po’ di distensione lo si trova seguendo lo scrittore nei suoi ricordi, tra i quali vi è però anche quello della morte tragica del fratellino che aveva segnato la sua vita e quella dei suoi genitori. La narrazione, coinvolgente e ben costruita, si sviluppa alternando i toni del thriller, soprattutto nelle prima pagine, con quelli del racconto di formazione e di quello storico. Si alternano tempo e ritmo, movimenti spazio-temporali che ci conducono dai momenti del sequestro a quelli familiari, tra l’Italia e l’America latina. Dal romanzo emerge la sindrome del sopravvissuto e un forte senso di colpa per essersi salvato (grazie alle conoscenze del padre) al contrario di tanti compagni morti sotto tortura o nell’oceano, lanciati vivi dall’alto di un aereo. La solitudine del sovversivo è un libro potente ma allo stesso tempo fragile: l’autore sembra cercare un equilibrio tra l’imbarazzo di chi si è salvato per i privilegi dati dalla condizione sociale della propria famiglia e la testimonianza coraggiosa che funge quasi da riscatto rispetto al proprio senso di colpa.   


Viviana Conti

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Marco Bechis, La solitudine del sovversivo punti 1.  Interessante romanzo e memoir di denuncia quello del regista italo-argentino Marco Bechis, che in una narrazione lucida e nel contempo appassionata rievoca i suoi trascorsi di ex militante di Lotta Continua e di ex desaparecido, sopravvissuto agli orrori ed alle torture subite per un tempo lunghissimo nel campo di internamento sotterraneo del Club Atlético, in Argentina, sotto la dittatura di Videla: ne uscirà vivo grazie ai contatti e alle amicizie influenti del padre, dirigente della Fiat. Vale la pena di ricordare che anche un altro autore coetaneo di Bechis, e cioè Massimo Carlotto, aveva già scritto qualche decennio fa due libri potenti sugli stessi temi e sulle medesime esperienze: Il fuggiasco e Le Irregolari/Buenos Aires horror tour, apprezzatissimi dal pubblico italiano. L’impianto narrativo de La solitudine del sovversivo evidenzia una prima parte più strettamente autobiografica - e non si stenta a credere quanto sia stato difficile, ma anche salvifico per l’autore ripercorrere il dolore con la scrittura- ed una seconda parte in cui Bechis comincia a maturare l’idea, che prende sempre più corpo fino a diventare vera ossessione, di trasporre su pellicola il suo vissuto e quello degli altri dissidenti che non ce l’hanno fatta: nascono film dal fortissimo impatto emotivo come Garage Olimpo e Hijos. Nell’ultima parte del libro, Bechis riporta le fasi salienti del processo ai suoi torturatori, una sorta di Norimberga argentina svoltasi più di trent’anni dopo i fatti accaduti, in cui lui stesso assunse il ruolo di testimone. Bechis è il simbolo di una generazione che ha voluto e saputo rispondere alla violenza con la giustizia: un’eredità preziosa che la società civile ha il dovere di custodire per le generazioni che verranno.   

Neva Galioto

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La storia si snoda lungo l’arco di un trentennio :un primo momento quando il19 aprile 1977 Marco Bechis, appena ventenne, viene sequestrato a Buenos Aires da un gruppo di militari in borghese, all’uscita della scuola per maestri e trasferito in un campo di concentramento dove sarà umiliato e torturato.Bechis ha un passaporto italiano, il padre è un dirigente Fiat, molto importante, che ha lavorato in Cile, in Brasile. in Argentina, con molte conoscenze e agganci.Proprio questo lo salverà ma si insinuerà come un tarlo nella sua mente perché la fortuna sua lo allontanerà dagli altri e il privilegio andrà a braccetto con la solitudine. Trent’anni dopo Bechis assisterà al processo dei suoi carnefici e darà la sua testimonianza. La vicenda si snoda in un crescendo e in una spirale di risvolti psicologici che catturano l’attenzione e coinvolgono emotivamente, affiorano tanti interrogativi come sempre in chi sopravvive ad una sciagura, i prezzi di mosaico di una vita e di una società vengono ricomposti con cura e precisione.Garbato e lo stile, raffinato il gioco sapiente di pause e dialoghi, perfetto il chiaroscuro formale.Lo sguardo autobiografico è lucido nell’analisi, senza enfasi o autocommiserazione Il groviglio delle emozioni viene sciolto accuratamente, comunicando al lettore la consapevolezza di un dramma personale inserito in un dramma più vasto, sociale dove alibi e responsabilità spesso mascherate tirano i fili di personaggi che, come burattini, recitano sulla scena della vita.   

Gemma Alfano

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Come dimenticare l’Argentina degli anni’70? Non quella dei mondiali, impressi di certo nella memoria collettiva, ma quella della dittatura militare di Videla, dei massacri quotidiani, dei desaparecidos. All’inizio del romanzo l’autore, Marco Bechis, è un adolescente, proviene da una famiglia benestante, il padre è italiano e la madre è cilena. Nel 1977 ha vent’anni, ha lasciato gli studi a Milano e frequenta a Buenos Aires una scuola per diventare maestro elementare. È amico di alcuni oppositori al regime, i Montoneros, a causa di ciò viene sequestrato da una squadra di militari in borghese e portato nelle carceri clandestine, nei sotterranei del Club Atlético, luogo da cui nessuno è mai uscito vivo. Per quattro mesi subisce sevizie, anche le torture con la terribile picana, interrogatori duri e violenti, ma alla fine, grazie all’intervento del padre, un importante dirigente della Fiat, viene liberato e può tornare in Italia. Finisce così la sua tragica vicenda, ma in Bechis subentra il senso di colpa dei sopravvissuti. Chi è intervenuto per salvarlo non ha fatto lo stesso con gli altri prigionieri dei sotterranei, sapeva ma ha taciuto, lasciando gli altri detenuti nelle mani degli aguzzini, al loro ineluttabile destino. Dopo la liberazione l’autore alterna vari stati d’animo, nel continuo dilemma che lo logora: eroe o traditore? È ossessionato dal pensiero di essere l’unico sopravvissuto a quell’inferno, dal fatto che nulla si è potuto fare per gli altri prigionieri, se non testimoniare gli orrori visti, sentiti e vissuti. Dal dovere della testimonianza nasce il Bechis regista di Garage Olimpo e di Hijos. La protagonista di Garage Olimpo è Maria, che nella ideazione originaria del film sopravvive alla prigionia e si salva, così come è accaduto a Marco. Ma la storia di Bechis costituisce un’eccezione, la sorte di tutti gli altri reclusi era l’esser gettati nel Mar de la Plata, lo scomparire. Acquisita questa consapevolezza, il nostro regista modifica il finale di Garage Olimpo e Maria segue la sorte di tutti gli altri internati nei campi di concentramento argentini. Il dramma interiore dell’autore, lungi dal risolversi, dopo la regia dei film si acuisce ancora di più, consapevole dell’unicità del suo destino. La svolta avviene nel 2010 durante il processo contro gli aguzzini dei campi di prigionia segreti che si svolge a Buenos Aires. La sua testimonianza al processo è chiara e dettagliata, si sofferma su ogni particolare ricordato, riferisce persino i nomi di chi aveva trattato la sua scarcerazione senza preoccuparsi della sorte degli altri prigionieri, non mantenendo così la parola data dal padre sulla segretezza delle operazioni riguardanti la sua liberazione. Lo farà in nome della verità e la verità lo rende libero: Bechis, trent’anni dopo, guardando in faccia i suoi silenti aguzzini, è finalmente consapevole di non essere né un eroe né un traditore, ma solo una vittima. La rielaborazione dei fatti avvenuta durante le fasi del processo e le severe condanne inflitte a quasi tutti i responsabili dei crimini della dittatura, danno avvio ad un processo di liberazione interiore da cui prende vita La solitudine del sovversivo. L’autobiografia di Marco Bechis alterna nella narrazione ai toni forti del thriller quelli analitici del romanzo storico e di formazione. Si susseguono momenti e ritmi differenti: veloci e incalzanti quelli relativi al sequestro, alla detenzione e alla liberazione, lenti e dettagliati quelli che riguardano le dinamiche e i conflitti familiari e gli approfondimenti storici su cui l’autore si sofferma in maniera precisa e puntuale. È un romanzo che non può lasciare indifferente il lettore, lo scuote in profondità. La crudezza nella descrizione di alcuni dettagli relativi alle torture e alle violenze subite non è mai gratuita, anzi è un atto dovuto, un debito saldato per conto di chi non può più raccontare ed un monito alla vigilanza rivolto a ciascuno, perché “la memoria, se non serve nel presente a costruire un futuro, non serve a nessuno”.   

Caterina pietravalle

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Questa autobiografia dell’autore è come un pugno nello stomaco e non solo per i fatti che racconta e per come li racconta, facendo luce su una vicenda che nel modo ha avuto una eco relativa, ma per il dolore, che mi sembra il filo conduttore di tutto il libro, di essere un sopravvissuto, ai suoi amici militanti, ma anche a suo fratello.Si percepisce l’urlo silenzioso di chi vuole riscattarsi per la sua condizione di privilegiato che gli ha evitato di subire una sorte avversa sia in famiglia che nella società. Un tormento, che lo porta, alla fine a cercare di rimediare per tutta la vita anche attraverso il suo lavoro cinematografico. Solo alla fine sembra trovare pace testimoniando contro i suoi (loro) aguzzini, una pace che gli deriva più dalla coscienza di essere egli stesso vittima, seppure in maniera diversa 

Stefania Oliveri

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Grandi lettori
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L’autore racconta la sua vita dal momento in cui ventenne fu arrestato  dall’Esercito Argentino e accusato di essere oppositore del regime. Da qui inizia  la storia della vita passata e presente dell’autore descritta attraverso figure chiave quali il fratellino morto, babbo, mamma, sorelle, compagni e parole chiave quali  prigione, tortura, picana, pallina che rimbalza, paura, senso di colpa, pensieri suicidi. Molto lucida e efficace è la descrizione delle carceri e  dei metodi di tortura praticati che portano alla condizione di totale asservimento e annientano ogni parvenza di autonomia e di dignità. Il rincorrersi e il ripetersi  dei ricordi e dei personaggi, talvolta, rende la lettura faticosa.

Marussia Pastacaldi

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Bechis con La solitudine del sovversivo fa definitivamente i conti col suo passato da desaparecido nell’ Argentina degli anni 70  dilaniata dalla terribile dittatura dei colonnelli, e  lo fa con una scrittura asciutta e precisa. Il suo racconto a metà tra diario familiare e confessione convince e rapisce e ci accompagna dall’infanzia del protagonista, fino al confronto che Bechis avrà molti anni dopo in un’aula di tribunale al cospetto dei suoi aguzzini. Il protagonista, come si può intuire, uscirà distrutto da questa esperienza allucinante che gli lascerà in eredità la sindrome del sopravvisuto, una terribile condizione psicologica difficile da gestire. Molto d’effetto sono i salti temporali all’interno del romanzo che donano il  giusto ritmo necessario a stemperare un racconto doloroso. Veramente consigliato.

Anna Esposito

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350 pagine di cronistoria asettica e clinica della vita di Bechis, di cui si salva solo la parentesi argentina. Per il resto, ancora una volta un intellettuale di sinistra italiano con la presunzione di credere che ogni minuto della sua vita possa avere un qualche significato per chi legge. Un lungo e noioso monologo, colmo di inutili dettagli e precisazioni, privo di emozioni. Bene per la lotta interiore di Bechis, ma io lettore cosa me ne faccio? Cosa mi resta alla fine di questa lettura? Nulla, se non utili informazioni storiche. Mi ha dato l’impressione di un "Italian Carrère-Wannabe" in salsa vittimistica. 

Chiara Munerato

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Circolo dei lettori del torneo letterario di Robinson
di Chiari “I MiseraLibri - Biblioteca di Chiari” 
coordinato da Alice Raffaele
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Non mi ha convinto "La solitudine del sovversivo" di Marco Bechis. Ho avuto la sensazione che mancasse qualcosa in quel raccontarsi, lasciandomi il dubbio che forse l’autore non abbia voluto elaborare quel suo passato in modo del tutto sincero.


Giuseppa Geloso

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In “La solitudine del sovversivo”, Marco Bechis racconta la sua esperienza di vita in Argentina durante gli anni 70, periodo del regime militare. L’autobiografia è scritta in modo crudo e diretto, rendendo molto bene la brutalità con cui venivano trattati i ribelli all’interno dei luoghi di prigionia e tortura. Nonostante la presenza di alcuni punti narrati della vita dell’autore troppo allungati e poco attinenti al contesto argentino, rimane una testimonianza avvincente dei fatti accaduti.

Simone Brognoli

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Una scrittura scorrevole e trascinante, una testimonianza storica, dove traspare l’urgenza di raccontare, quasi a mo’ di una confessione, il suo coinvolgimento da giovane adulto nelle rivolte degli anni 70 in Argentina.

Mirella Signori

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L’autore, in un continuo alternarsi di episodi (non cronologici) della propria vita, si offre nudo allo sguardo del lettore, con le sue scelte, le sue paure, i suoi dubbi. Marco Bechis, partendo dalla terribile esperienza vissuta durante la dittatura militare in Argentina, si inoltra nel suo vissuto e nel suo “Essere” alla ricerca della propria collocazione nella società. Il libro offre molti spunti di riflessione sulle vicende che hanno caratterizzato la società argentina e italiana negli anni 70-90.

Carlo Alberto Basile

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Un viaggio nel passato, nell’ Argentina del regime militare degli anni ’70, la prigionia nei sotterranei della capitale si mescola a ricordi di infanzia e adolescenza; la protesta, la politica, i segreti e i compromessi di una vita da sopravvissuto, una vita di lotta, per portare a galla la verità. Una testimonianza impegnativa, che fa riflettere rispetto alla situazione di un quasi-desaparecido combattuto tra il desiderio di verità e l’impossibilità di liberare altri come lui. Un documento di forte impatto emotivo, l’unico modo per riscattarsi e dare il giusto significato ad una storia che di soprusi e ingiustizia.

Rachele Baresi

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Duro e angosciante, nel suo realismo, che mostra e fa vivere, senza enfasi, la violenza del regime argentino. Una violenza nascosta e dissimulata nella quotidianità per molti normale. Da leggere.


Germana Grazioli

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Quello di Bechis è un romanzo autobiografico molto doloroso. Il 19 aprile 1977 un ragazzo di vent’anni viene fermato in strada e trattenuto in un sotterraneo di Buenos Aires: diventa uno delle migliaia di desaparecidos per motivi politici. Una vita da esiliato, sempre, fin da adolescente, quella dell’autore, era tornato in Argentina dall’Italia per diventare maestro e insegnare nelle scuole del nord, quello era il suo obiettivo politico, una strategia di cambiamento di lunga durata. Ma era stato prelevato a una fermata dell’autobus e la sua condizione improvvisamente era diventata disumana. Bechis ricostruisce i suoi passi, da sopravvissuto, con la colpa di essere vivo, lui, e gli altri no. Con la certezza che è impossibile riempire il vuoto che lascia una persona scomparsa. Lo ha saputo da sempre ma forse l’atto di scriverne è una specie di debito che si cerca di saldare.

Emma Dovano

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Grandi lettori
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La solitudine del sovversivo è trascinante, coinvolgente. Perfetto. 
Se lo avessi trovato in libreria, cercando altro, certamente lo avrei comprato. 
Ti sembra di stare sul divano accanto ad uno sconosciuto che ti racconta la sua vita strampalata e, portandoti in un mondo estraneo, ti lascia ammutolito. Lo stile è impeccabile, adeguatissimo. Anche questo affronta un tema politico-sociale. Ma lo conosciamo.
E sono costretta a preferire l’altro.

Marilù Cosma

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Un libro non semplice. Diviso in due grandi capitoli, il terzo è in realtà l’epilogo, dei quali il primo è  la caduta all’inferno del Club Atletico, dove i ricordi della vita precedente sono il salvagente per non soccombere al dolore e alla paura, tangibili anche per chi legge, mentre il secondo è la lenta rinascita grazie all’arte, dopo tanto vagabondare. Un libro che fa male e che lascia tanto amaro in bocca per ciò che non si saprà mai e per le mancate condanne di tanti responsabili morti prima del processo. Libro comunque necessario per non dimenticare.

Rosangela Usai

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Circolo dei lettori del torneo letterario di Robinson
di Lanciano Lanciano“Ex Libris”
 coordinato da Maria Rosaria Lamorgia
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Figlio di una famiglia privilegiata, padre italiano alto dirigente della Fiat, madre cilena cosmopolita, il giovane Bechis vissuto soprattutto in Argentina, sua vera patria, fin dall’adolescenza si sente attratto dagli ultimi della terra. Avvenuto il golpe militare, entra nell’orbita dei Montoneros, pur non aderendo alla lotta armata. Ventenne, viene catturato dalla polizia del regime e condotto in un sotterraneo, torturato e infine salvato dall’intervento e dalle conoscenze del padre. Per tutta la vita il giovane sarà tormentato dall’esperienza traumatica vissuta e dal senso di colpa per essersi salvato. Si sente un traditore nei confronti dei moltissimi scomparsi nel nulla (i sommersi e i salvati !). Si avvicina all’arte, al cinema come privilegiato strumento di espressione e lotta politica, fa film molto significativi di denuncia della situazione in Argentina, ma riuscirà a liberarsi dalle sue ossessioni solo dopo la testimonianza nel processo contro i suoi carnefici e scrivendo questa autobiografia. Il libro mi ha molto coinvolto perché mi emoziona tutto quanto accaduto negli anni ’70, gli anni della mia piena presa di coscienza della politica e della storia Mi è anche piaciuta la scrittura, il continuo modificarsi dello spazio e del tempo, che l’Autore padroneggia in maniera mirabile. 

 

Rita Foresi

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Sullo sfondo dei  grandi avvenimenti degli anni ’70, Bechis ripercorre gli anni della sua gioventù in Argentina: studi, amici, ragazze ma, soprattutto, la violenta dittatura di Videla; la gioventù gettata in mare, desaparesida; il coraggio delle madri di piazza De Majo con i loro fazzoletti bianchi e la banca del DNA per ricercare (tuttora) i figli strappati alle madri; le prigioni " illegali" della polizia, con la musica a coprire le grida di dolore di chi veniva sottoposto a" la picana", una scossa di corrente che, se a basso volume serviva per incanalare le mucche verso la morte, sotto la dittatura veniva utilizzata, a fortissima intensità, su prigioniere e prigionieri per lacerarne il corpo senza lasciare tracce. Bechis conosce questa atrocità: è stato incarcerato nella cella n. 16 e ha subito la picana  ripetendosi" chi mi ha tradito?" , arrivando a capirlo e a giustificare l’amica che l’ha fatto per salvarsi la vita. Finalmente la liberazione, per intervento del padre, un alto dirigente della Fiat, l’abbraccio della madre, che non lo ha lasciato mai, il ritorno in Italia, la famiglia, il lavoro di denuncia attraverso il cinema, le interviste, gli scritti...Ma nel 2010 Bechis deve tornare su  suoi ricordi, sistematizzarli, appuntarsi con cura nomi e fatti, prepararsi per bene: in Argentina il 5 luglio dovrà testimoniare nel processo ABO, Atletico/Banco/Olimpo, i luoghi delle torture, contro 17 imputati responsabili delle prigioni "illegali e delle torture. E Marco annota ricordi,date, nomi, fatti, si esercita con un amico per rendere la sua deposizione la più completa ed efficace. Svolgerà bene il suo compito e il 7 luglio tornerà in Italia, al suo lavoro e alla sua famiglia allargata , che " gli ha insegnato a vivere".
Scrittura piana, ritmo degli eventi serrato, narrazione complessa perché impegnata a collegare storie individuali e collettive: il lavoro di Bechis , essenziale per non dimenticare mai, si offre ad una lettura attenta e dolorosamente partecipe, in modo particolare da parte di chi , negli anni ’70 , era giovane e seguiva la tragedia argentina che ha coinvolto figlie e figli di tanti italiani immigrati in quel paese.

Luigina De Santis

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Un diario di prigionia intenso, terribile e, soprattutto, vero. Un diario di vita che disegna l’andirivieni tra due continenti, due bisogni, due identità. Dietro c’è il desiderio di un cambiamento radicale che coinvolge tanti giovani e tanti intellettuali. Ma quale strada percorrere per arrivare al “ cambiamento”?Distruzione del vecchio con una militanza attiva o costruzione del nuovo con un paziente e profondo lavoro educativo?

Annamaria Ciarelli

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Intenso, duro, vero. Marco Bechis, il regista di Garage Olimpo, trascina chi legge nell’orrore della dittatura di Videla raccontando la sua vicenda di desaparecido e l’inquietudine del sopravvivere. Un memoir che alterna le vicende familiari e quelle del sequestro con un ritmo serrato:l’infanzia in Argentina, la famiglia cosmopolita, la tragedia di un fratellino morto, il trasferimento a Milano e il ritorno da solo in Sudamerica, il desiderio di cambiare il mondo facendo il maestro e quell’incontro, il 19 aprile 1977, che lo trascina nel buio dei sotterranei di Buenos Aires dove in migliaia subiscono torture. Il rumore della catene, le grida dei prigionieri, le voci della radio e degli aguzzini, una colonna sonora dissonante che diventa una bussola per orientarsi in un mondo dove si è costretti a vivere al buio, bendati. Una prigionia che per lui non durerà molto e non finirà con la morte grazie all’intervento del padre e dei suoi amici industriali. Viene espulso, condannato all’esilio permanente in Italia. Ma il passato è dentro di lui, alimenta l’inquietudine del sopravvissuto e il desiderio di denunciare i crimini della dittatura. L’aiutano l’incontro con l’arte e con il cinema, ma a liberarlo dalle sue ossessioni sarà il ritorno in Argentina, quando, testimoniando in aula di tribunale, potrà finalmente guardare in faccia i suoi aguzzini. Solo allora si sentirà autorizzato a scrivere di sé e di quella lotta per cambiare il mondo che ha coinvolto la sua generazione.

Maria Rosaria La Morgia

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Il libro narra la  drammatica vicenda umana e politica dell’autore, sequestrato a Buenos Aires il 19 aprile 1977 durante il regime militare, sottoposto a sevizie nel sotterraneo definito " Club Atletico", dove, bendato, diventa il detenuto A01, un cieco capace di schedare solo voci, suoni, rumori, le catene, il passo strascicato degli altri prigionieri, le urla dei torturati, la pallina di ping pong che rimbalza, il transitor acceso per gli incontri di calcio, la voce dei carcerieri "il buono" e "il cattivo", dove sperimenta anche una sessione di "picana" il pungolo elettrico usato sui corpi per indurre a parlare. Sarà liberato dopo quattro mesi solo grazie all’intervento di conoscenti influenti dei suoi familiari, Ma per molti altri compagni la sorte non è la stessa. Durante la sua vita di sopravvissuto, Bechis si sente un usurpatore, un traditore, finchè scrivendo questo memoir capisce di essere una vittima. Anni dopo, rivedrà i suoi assassini, testimoniando contro i crimini dei militari, con il ricordo delle vittime sempre nell’animo. Dopo averne seminato brandelli nei suoi film, Bechis ha voluto raccontare per intero la sua vita di desaparecido- sopravvissuto, dove l’accento cade piuttosto sul secondo vocabolo, un romanzo lucido e "onesto" nell’analisi di se stesso, in cui la scrittura ha avuto un  ruolo terapeutico per superare il trauma del rapimento e delle torture. quasi una espiazione per un destino evitato che gli ha lasciato sempre la sensazione di un debito verso chi non c’è più. Una sindrome sull’onda di quanto già sappiamo da Primo Levi sui sommersi e salvati. Un viaggio nella memoria di una generazione, quasi un romanzo di formazione, che ha sempre in primo piano la responsabilità del sopravvissuto. Oltre all’esigenza di narrare la propria esperienza individuale, Bechis fotografa e racconta il tessuto di una generazione che ha creduto di poter cambiare il mondo. L’autore ha evidenziato come, a molti anni dalla fine della dittatura, nonostante i processi e le condanne, ancora non si sia ottenuta una riconciliazione nella società argentina e che questa potrà avvenire solo dopo che i militari avranno parlato, ammettendo  le loro responsabilità. "La memoria, se non serve nel presente a costruire un futuro, non serve a nessuno"

Rita Crisanti

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Un libro letto tutto d’un fiato nell’urgente attesa di una possibile risoluzione che fin dalle prime pagine mi ha risucchiata e fatta inabissare nel vissuto umano e politico dell’autore. Mi è piaciuto così tanto che non saprei dire cosa ho amato di più e perché vorrei esortare tutti a leggerlo. Se è lo sguardo lucido e accorato davanti all’esito di quelle rivoluzioni, in Argentina e in Italia, che avrebbero voluto cambiare il mondo alla radice e che invece erano precipitate in "in uno stesso buco nero" e a quei giovani "coraggiosi e idealisti" che morivano in entrambi gli emisferi anestetizzati e annichiliti gli uni dalle squadre dei militari in borghese gli altri dell’eroina in vena. O invece la voce di quell’esperienza di dolore angoscioso "che allarga uno squarcio dentro il petto" mescolato al senso di colpa "pesante più del piombo" per aver finalmente placato la fame di cibo e libertà, per essere un sopravvissuto mentre i compagni continuano a consumarsi in carcere, a sperimentare la picana e rischiare di perdere quotidianamente la dignità e la vita o scomparire senza lasciare traccia. O ancora il coraggio impavido e liberatorio del testimone che decide di raccontare tutto al mondo, anche la vergogna del proprio privilegio, in forme d’arte molteplici e accessibili a tutti per rendere giustizia e scongiurare che l’orrore si riproponga. 

Paola Fasciani

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Non è un romanzo, è la storia vera raccontata in prima persona da chi ha vissuto sulla propria pelle il sequestro e la tortura corporale durante gli anni della dittatura in Argentina. Fatti sconvolgenti e toccanti raccontati senza pathos. Il coinvolgimento sentimentale dell’ autore non traspare se non verso la fine del testo. Anche per la scrittura, a mio avviso, Marco Bechis sceglie una terza via, cosi come per la testimonianza in tribunale contro i suoi torturatori: una posizione asettica, distante dai fatti, come se non fossero accaduti a lui direttamente. La scelta di non incrociare lo sguardo dei suoi aguzzini durante la deposizione conferma la sua intenzione di non essere sopraffatto dalle emozioni. Al libro manca appunto quel quid in più….è un autobiografia dove le emozioni dell’ autore sono velate, nascoste dietro la ragione , dietro ai propri pensieri, dietro ad avvenimenti raccontati come se fossero successi a qualcun altro.

Elvira Martelli

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Dura e schietta, una sorta di raccolta di appunti e ricordi priva di una trama precisa, con salti temporali improvvisi che sortiscono l’effetto di legarti ancora di più alla lettura. Nell’inizio, il racconto del sequestro subito ci trasmette in modo lucido e pulito il vissuto in condizioni estreme di tensione e sottomissione, parlando di tortura e di prevaricazione in modo del tutto naturale, al ritmo di una partita di ping pong. Il rientro in Italia rallenta il ritmo del racconto pur lasciandolo interessante e nella conclusione con il processo ai responsabili ritorna alle vicende Argentine. Ho sentito una sorta di “senso di colpa” del protagonista per non riuscire a dare quello che la storia gli chiedeva e per aver avuto una sorte diversa dai tanti che non avevano alle spalle una famiglia influente. Gran bel libro.

Luisa Carinci

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Mi ha colpito la lunga gestazione del libro che affronta temi già trattati dall’autore già regista di successo. In particolare ero molto sensibile al tema avendo in questi mesi, dopo anni di conoscenza, parlato con una donna della mia età della sua fuga adolescente dall’argentina e dell’orrore di quel periodo, delle morti della sua famiglia. Non avevamo mai affrontato questo argomento perché tanto doloroso per lei. Poi pochi giorni dopo è arrivato il libro di Bechis…..è stato un piaciere immergermi in quelle pagine….e apprezzare la sua testimonianza.

Annarita Frullini

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È davvero un pugno nello stomaco, soprattutto la prima parte, quella legata al racconto della sua prigionia, un’esperienza terribile che ha cambiato la sua esistenza e la sua visione del mondo. Quel 19 aprile del 1977 quando all’uscita dalla scuola viene sequestrato da un gruppo di militari in borghese. Inizia così il suo viaggio nel dolore e nella paura. Ha 20 anni il regista di Garage Olimpo che in questo libro non è solo scrittura lucida e sincera, ma è
anche una voce forte e chiara, quasi un urlo che richiama a tragedie, a sofferenze indicibili inflitte da una dittatura feroce. Una testimonianza potente, dal forte carico emotivo, che merita di essere conosciuta da chi ha vissuto questa pagina buia dell’Argentina solo dalle cronache di tv e quotidiani. Mi sono fermata più volte mentre scorrevo le pagine di questa storia incredibile per ricordare che non era la fantasia di un bravo scrittore, ma la vita vera
di un uomo che forse, grazie a questo lavoro introspettivo e complesso riconosce di essere di essere conosciuta da chi ha vissuto questa pagina buia dell’Argentina solo dalle cronache di tv e quotidiani. Mi sono fermata più volte mentre scorrevo le pagine di questa storia incredibile per ricordare che non era la fantasia di un bravo scrittore, ma la vita vera di un uomo che forse, grazie a questo lavoro introspettivo e complesso riconosce di essere
stata solo una vittima.

Pina De Felice

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Un libro intenso e appassionante; un racconto-testimonianza in cui la vicenda personale dell’autore apre le porte a contesti storici e a realtà internazionali complesse. Il 19 aprile 1977 ha inizio la sua esperienza drammatica di desaparecido nell’Argentina della dittatura militare ed è il punto di partenza anche del travaglio interiore di un “esule” alla ricerca dell’identità smarrita, di un militante sospeso fra la figura di “traditore” e quella di “eroe”. Al di là del valore storico, di documentario e di denuncia degli orrori di cui sono responsabili tutte le dittature, è questo percorso esistenziale l’aspetto più coinvolgente e commovente. Il rapimento rappresenta l’occasione per iniziare attraverso la scrittura una operazione terapeutica e catartica in cui Bechis riesce a sanare ferite profonde, a superare sensi di colpa, a definire confini, a sentirsi “vittima”, a trovare la sua “lingua”. Con una scrittura chiara, ritmo incalzante e continui salti temporali e spaziali, sapientemente governati, l’autore racconta al presente e in prima persona la sua vita, ma tutto il romanzo assume una valenza collettiva.   

Maria Alba Simigliani

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Un libro sincero e crudo nelle descrizioni. L’autore racconta l’atmosfera vissuta prima, durante e dopo la prigionia nel campo di concentramento Club Atletic, risalente all’aprile del 1977, pagine buie nella storia dell’Argentina, durante la dittatura di Videla.
Una autobiografia romanzesca di facile lettura e, soprattutto nella prima metà, estremamente appassionante. L’autore racconta la sua vita in una sorta di diario che ripercorre tutte le fasi.
Gli amici, la perdita di un fratello e i trasferimenti sono tutti tasselli importanti alla ricostruzione del puzzle della sua vita, ci fa entrare nella sua testa e nella sua intimità senza filtri. Mi è piaciuto molto perché non è un romanzo storico che racconta episodi, eventi di un periodo ma una testimonianza concreta che mi ha tenuto incollata fino all’ultima pagina, seppur la seconda parte è stata meno avvincente della prima. Un libro assolutamente da leggere e far conoscere a più persone possibile. Una testimonianza che non può mancare per chi quegli episodi drammatici li ha conosciuti solo da lontano, nelle cronache e nei servizi televisivi.

Rosella Travaglini

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Una storia appassionante e avvincente, personale e nello stesso tempo collettiva, collocata in contesti generazionali e storico - politici particolarmente eccezionali, difficili, nella loro drammaticità. Il giovane Mario Bechis - “sovversivo riluttante” - a Buenos Aires, nell’aprile del 1977, appena ventenne, viene sequestrato e imprigionato nei sotterranei del tristemente famigerato Club Atletico, un carcere clandestino dove si concentrano le peggiori forme di costrizione e annientamento verso gli oppositori alla dittatura militare in Argentina. Marco, vissuto tra l’Italia e l’Argentina, in virtù delle conoscenze dei genitori, che faticosamente riescono ad ottenere la sua scarcerazione, riesce a venir fuori da quell’inferno, ma per molti compagni la sorte è stata ben diversa. Da sopravvissuto si sente, dunque, un usurpatore e solo attraverso un lungo percorso riesce ad emergere la consapevolezza di essere una vittima. Anche attraverso la testimonianza giudiziaria e con il testimoniare mediante l’arte, egli ha potuto districare l’intreccio dell’esperienza traumatica e tornare a vivere. Un libro veramente emozionante, una scrittura gradevole, una piacevolissima lettura.

Franca Pierdomenico

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Racconto autobiografico di forte impatto, duro, crudo, capace di rendere al massimo il clima dell’Argentina durante il golpe e la personale storia del protagonista prima, durante e dopo la prigionia nel campo di concentramento Club Atletico risalente all’aprile del ‘77…
Si viene portati dentro quella prigionia, in quella paura, in quello spirito di adattamento.

Antonella Fantini

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Circolo dei lettori del torneo letterario di Robinson 
di Pioltello "Biblioteca di Pioltello" 
coordinato da Fiorenza Pistocchi
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La scrittura di quest’opera autobiografica non ha “solo” valore di testimonianza: come l’autore stesso riconosce, risponde all’esigenza di elaborare un vissuto traumatico (arresto, prigionia, tortura durante la dittatura di Videla in Argentina, deposizione durante il processo ai torturatori
trent’anni dopo) rileggendolo in una prospettiva più ampia, che abbracci, oltre all’impegno politico, il contesto familiare e sociale di un’intera vita: una vita segnata da vicende luttuose (la morte di un fratellino), da addii dolorosi, da vicissitudini sentimentali e lavorative tutt’altro che tranquille, da
rapporti difficili con i genitori, da viaggi inquieti da un continente all’altro. La narrazione non rispetta l’ordine cronologico: flashback, ellissi, anticipazioni lungo la linea del tempo rivelano nessi emotivi e psicologici tra momenti lontani e apparentemente slegati; rintracciando e seguendo questo esile ma tenace filo conduttore, accogliendo e intrecciando dolore e tenerezza, lo scrittore può finalmente accettare di vedersi non più colpevole sopravvissuto (al fratellino, ai desaparecidos), ma vittima di un destino tragico e di un sistema ingiusto, capace tuttavia di ricostruire e dotare di senso la propria esistenza.

Maria Liverani

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«La solitudine del sovversivo» è un romanzo autobiografico; racconta la storia dell’esperienza sia intima sia politica  del giovane Marco Bechis e della sua generazione di militanti, che  cercava una cambiamento radicale in Italia e in Argentina, luoghi della sua infanzia e gioventù. 
Da ragazzo a Buenos Aires, nell’aprile del 1977, viene sequestrato, imprigionato e torturato in uno dei sotterranei segreti del regime di Videla a cui sopravvive grazie all’aiuto del padre che lo fa uscire dopo quattro mesi. 
Nel 2010 testimonia al processo celebrato contro i responsabili dei delitti della dittatura e segue la lettura delle condanne.
Il racconto segue dunque un ordine cronologico, definito anche dal titolo dei capitoli, ma è arricchito da flashback con racconti e riflessioni sul suo vissuto,  segnato dal senso di colpa di essersi salvato, “dall’angoscia di essere vivo”, dalla consapevolezza della banalità del male e dalla faticosa ricerca “del senso della vita”. 

Giancarla Spanu

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Il libro racconta la storia personale dell’autore. La sua cattura a Buenos Aires  il 19 aprile 1977 all’uscita della scuola, le varie fasi del  suo sequestro, le torture nei sotterranei invisibili al mondo, la sua solitudine, la sua liberazione.
Con un alternanza di ricordi dell’infanzia, dell’adolescenza di un ragazzo di buona famiglia vissuta tra l’Italia e l’Argentina, ci racconta  la dittatura argentina , il processo con i vari testimoni tra cui lui. Ci mostra la  difficoltà di superare il suo vissuto, ci ha provato più volte con i film e da ultimo con questo libro.
Un buon libro. Purtroppo  bisogna scegliere.

Maria Modarelli

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Circolo dei lettori del torneo letterario di Robinson
di Treviso “5 del 42” 
coordinato da Laura Pegorer:
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Il libro inizia con la cattura di Bechis, la descrizione è straniante, i lampioni accesi non illuminano più i passi per raggiungere la salvezza rallentano la strada popolata si vuota. È così che il protagonista vede concretizzarsi tutte le sue paure, l’arresto, la tortura, l’allontanamento dai suoi compagni, il silenzio. La violenza con cui il regime argentino lo ha catturato, segregato, interrogato, gli rimarrà addosso tutta la vita. Ciò che gli accadrà poi quando finalmente grazie alla complicità compromissione del padre , riuscirà a tornare libero non cambierà la percezione di quella realtà, la sua necessità di denunciare gli abusi e il senso di colpa per essere vivo. Anche per la morte del fratello vive la stessa colpa. Il linguaggio visivo che adotta nei films, Garage Olimpo e Figli, è asciutto scabro, come nella scrittura che non narra mai di gesti evidentemente crudeli ma ne fa la cronaca come di un qualsiasi evento. La ferocia del regime è nei gesti piccoli nella quotidiana paura. Gli autori dei crimini restano impuniti per anni come se la responsabilità di tutti rendesse nessuno veramente colpevole. L’autore infine testimonia nel processo contro i suoi torturatori  , individuandoli al di là di ogni possibile dubbio o paura o cedimento. Bechis fa un’operazione sulla memoria che ci riporta ai superstiti dei lager che coltivarono per anni il ricordo di ciò che avevano subito e il senso di colpa per essere sopravvissuti. 


Nat Mungari

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Romanzo autobiografico-storico molto interessante, testimonianza di vita di un argomento a me poco noto; si può considerare un romanzo corale perché la sua testimonianza non è fine a se stessa ma riguarda molte persone/amici che hanno vissuto la stessa brutale esperienza.
Il romanzo è suddiviso in tre parti: il sequestro, la testimonianza del prigioniero e la vita trent’anni dopo: la solitudine, la speranza e il riscatto.
La vicenda è narrata in maniera scorrevole, lo stato d’animo di Marco è chiaro: ne risulta una persona sofferente, resiliente e che non si perde d’animo nonostante le torture ed il silenzio che sopporta per tanti anni.
Mi è mancata, durante la lettura, la sensazione forte di rinascita quando viene rilasciato all’aeroporto: sono state spese troppe poche parole per definire il senso di libertà che dovrebbe aver provato ("La libertà e la prigionia hanno le loro fondamenta nel cemento" pag. 181).
Ho trovato interessante questo rapporto tra prigionia e libertà, concetti agli antipodi ma con le stesse radici: da una parte una prigionia troppo severa da sopportare, che ti blocca la vita, ti toglie il respiro, come il cemento che sigilla ogni poro, dall’altra una libertà che spaventa ma desiderata a tal punto da sperare che ti inglobi come un’orma nel cemento fresco; una libertà comunque che non ti lascia, non ti permette di dimenticare il passato e gli amici che sono rimasti laggiù. 
Ho trovato ben strutturato anche il rapporto fra il protagonista ed il fratello morto prematuramente: il piccolo Roberto è rimasto latente ma sempre presente fino alla fine del romanzo: "Io dico sempre che Roberto tutta questa vita non l’ha vissuta" (pag. 275).

Marta Marcazzan

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Briciole di terribile verità narrate con competenza e partecipazione. Ciò che mi ha fatto più male è la conferma della malvagità umana.

Eugenia Mungari

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Nell’ Aprile del 1977 tutto cambia, Marco Bechis da cittadino libero diventa un sovversivo, un terrorista ma il resto della sua vita sarà segnata da una continua mancanza. E’ una mancanza che sente su di sé già da quando era bambino e subisce le conseguenze della morte improvvisa di suo fratello Robertino e che ora si amplifica nella sua salvezza dall’inferno della dittatura argentina: non un desaparecido, non uomo libero. Un dramma che si consuma nell’essere nel mezzo, un sopravvissuto all’orrore di cui tanti, troppi, sono rimasti vittime. 
Nel suo romanzo ripercorriamo la sua travagliata esistenza alla ricerca di un posto, di una passione, di un qualcosa che possa liberarlo dalla domanda che spesso accompagna la vita di ogni sopravvissuto: "Perché io? Perché mi sono salvato e gli altri sono morti?". Con assieme anche un sottile senso di colpa che si attenua nel momento in cui decide di mettere per iscritto la sua esperienza ed accompagnandoci nella narrazione  ripercorre le scelte che lo hanno portato all’arresto, gli sforzi premiati dei genitori per farlo liberare, la ricerca continua di un modo per denunciare, per far conoscere a tutti le nefandezze di cui è capace l’uomo contro l’uomo, la testimonianza al processo e in questo percorso finalmente  si rende conto che per quanto fortunato sia stato è pur sempre una vittima, che porterà sempre con sé il peso di tutto quello che gli è accaduto.
Consapevolezza che non ha raggiunto nemmeno con i film autobiografici, tra tutti Garage Olimpo che dimostrano bene la doppia dimensione del sopra in cui tutto sembra scorrere normalmente e del sotto dove la violenza si manifesta in tutte le sue forme. Parla di violenza e non di tortura per una precisa scelta lessicale e di significato perché secondo lui la tortura rimanda ad una violenza pressocché fisica mentre il termine più incisivo di violenza si riferisce al recare danno non solo fisico ma anche psicologico.
Nelle sue opere la violenza non è mai mostrata, esibita o spettacolarizzata  come molte produzioni ed anche molti canali di informazione fanno: " Giunsi alla conclusione che l’unico modo di rappresentare la violenza in modo efficace fosse ometterla...omettendo e mostrando soltanto gli effetti, la violenza rimane nella testa dello spettatore che è obbligato ad immaginarla. Sarà quindi più persistente e aprirà uno spazio di riflessione che non si darebbe se venisse sbattuta in faccia".
Nello stesso modo ragiona sugli aguzzini :" Come non ho mostato la violenza, non volevo mostrare la personalità degli aguzzini, magari giustificandoli con infanzie difficili e padri assenti". Lui che i propri aguzzini ha visto in faccia durante il processo contro di loro quando è caduta l’immunità, persone che hanno scelto consapelvolmente di essere feroci, spietati e che durante l’immunità hanno mostrato tutta la loro cattiveria  vivendo la loro vita come se quello che avevano inferto non fosse stato importante.
E la sottile linea tra legalità e illegalità si disvela attraverso l’aiuto di amici del padre di Bechis che gli hanno permesso di salvarsi , persone che sapevano ma che per comodità, convenienza e anche paura non hanno denunciato, e la storia del passaporto che gli viene sottratto dopo la cattura e che ricompare al momento del rilascio, segno evidente del legame tra il mondo di sopra e quello terribile di sotto.
Questo è uno di quei libri che spiegano la storia da dentro, che fanno capire l’aria che si respirava in quel periodo, scritto in modo scorrevole, mai noioso o didascalico nonostante la mole di informazioni che contiene e che ispira il lettore ad informarsi di più su questo periodo storico così vicino e così lontano, a vedere i suoi film, a capire chi fossero i mille artisti e personaggi, tra cui il premio nobel Adolfo Perez Esquirel, che lui incontra nella sua vita. 
E’ un libro che fa riflettere ma anche arricchire chi lo legge.

Mara Paladini

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Ma la forma dov’è?
Quando i critici (soprattutto i militanti, pare che esistano ancora) scrivono che nel romanzo contemporaneo la forma non esiste più, magari non ci facciamo caso. Poi leggiamo libri come quello di Bechis e capiamo.  Si può parlare di ritmo, velocità, paratassi, -esageriamo- commistione di generi? Inutile cercare. Non c’è nulla più del contenuto. Una trama autobiografica. Può bastare? Siamo destinati a significanti senza significanti? (Parole ormai in disuso che usa proprio Bechis.) Può darsi. 
Eppure Bechis stesso scrive che all’inizio della carriera da cineasta “era più attratto dall’effetto percettivo che un film ha sullo spettatore, che dalla narrazione vera e propria”
È per questa sua carenza nella scrittura che quella sua condizione di “profugo dell’anima” con cui si descrive, riesce a passare poco? Altrettanto può dirsi per lo scavo sul senso di colpa o l’indagine sulla “banalità del male”.  
In un libro che sembra non finire mai, evocativa mi pare solo la frase dell’indigeno incontrato nel viaggio in Amazzonia; narra così dell’arrivo dei colonizzatori: “abbatterono alberi, costruirono una pista in terra battuta e fecero piovere dal cielo il futuro: un aereo carico di mucche”.
Ci auguriamo che torni a presto dietro la macchina da presa.

Laura Pegorer

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Grandi lettori
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Una storia autobiografica all’interno di una tragedia storica; è incredibile pensare che si parli di anni così vicini a noi (gli anni ’70), dell’avvento di una dittatura militare sanguinaria che il protagonista/scrittore inizia a vivere durante la propria adolescenza, diventandone vittima ma poi salvandosi grazie alla sua doppia nazionalità e soprattutto al passaporto italiano. L’analisi dei fatti, delle differenze tra il visibile e l’invisibile, tra l’accettabile propagandistico e la crudeltà celata sono ben rappresentati e fanno da sfondo al dramma personale di chi, sopravvivendo, si sente di aver in qualche modo tradito i compagni martiri. La catarsi si potrà completerà (ma il dubbio rimane) partecipando al Processo finale e potendo finalmente parlare dei fatti, dei ricordi, delle vittime. Emozionante.

Giacomo Zipoli

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Grandi lettori
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Libro che si legge tutto di un fiato ( anche perché è un libro di 350 pagine e tre soli capitoli):  è l’autobiografia del regista italoargentino Marco Bechis. Fiancheggiatore degli oppositori dei dittatori argentini, finirà imprigionato nelle carceri segrete del regime e torturato; solo grazie all’intervento del padre che si avvarrà delle sue conoscenze, riuscirà in maniera a dir poco rocambolesca ad uscire di prigione. Il fatto di essere un salvato rispetto alle migliaia di sommersi, crea al protagonista  un senso  di colpa non indifferente, creando uno stream of consciousness dove si mischiano le angosce personali  e i difficili rapporti familiari con le vicende storiche e sociali del periodo del post 77 della rivoluzione non più possibile;
Solo la testimonianza in tribunale contro gli aguzzini nel 2010 scioglierà questo a dir poco ingarbugliato nodo interiore.
Alla fine non occorre avere vendetta, basta avere giustizia.

Umberto Celli