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Molto coinvolgente, drammatico per la contrapposizione tra "normalità" della vita da studente dell’autore e atrocità perpetrate impunemente dalla milizia governativa su chi ritenevano essere un nemico dello stato argentino. Un punto di vista interno ai fatti che ho trovato molto interessante.
Elisa Pezzani
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La lettura de La solitudine del sovversivo è estremamente fluida, le parole scorrono e i fatti si susseguono velocemente. Lo stile è schietto e capace di trasportare il lettore: mentre si legge sembra che l’autore, ripercorrendo gli avvenimenti, riviva anche le sensazioni provate. Trovo il romanzo molto interessante e arricchente dal punto di vista storico poiché narra una parte di storia dell’Argentina estremamente spiacevole e tuttavia poco conosciuta. Lo ritengo un libro imponente dal punto di vista letterario in quanto autobiografico, e come espediente di riflessione e intuizione dell’autore su se stesso.
Beatrice Pelliccioli
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Clizia Canavese
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Scampato alla fine peggiore, per un sovversivo, durante il regime militare di Videla in Argentina. Con film (da regista) e riscrittura, l’autore non ha voluto, né potuto dimenticare le atrocità subite dai suoi amici
Verità cruente, descritte con maestria, nonostante l’Horror". Tanto, da portare al termine la fluida lettura fino a "Giustizia fu fatta", dopo 33 anni. Ottimo libro
Viola Villa
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Ho iniziato a leggere questo libro e subito ho avuto molta difficoltà a procedere x la crudezza dell’argomento, Torture etc.. durante la cattura del protagonista del1977 all’epoca della dittatura militare in Argentina. Ho voluto leggerlo fino alla fine nonostante tutto, ne esce un ritratto molto umano del protagonista che essendo scampato alla morte grazie a raccomandazioni di suo padre, non si da pace per tutti quegli amici che non sono stati salvati. Il cinema gli dato la possibilità in parte di poter sopperire a questa sua tragedia umana e facendo Garage Olimpo ha potuto raccontare molte storie di amici sfortunati. A distanza di 33 anni ha testimoniato in tribunale e i carnefici sono stati condannati. Giustizia e stata fatta finalmente. Interessante dal punto di vista storico voto ottimo.
Pasquina Covelli
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Questo libro mi è piaciuto molto, l’ho trovato davvero interessante, come interessante infatti è la vita dell’autore di cui ammetto non sapevo nulla.
Inizialmente ho pensato fosse una sorta di thriller, pian piano è emerso invece che era lo scrittore stesso a raccontare la sua vita, partendo dalla sua infanzia fino ai giorni d’oggi, attraverso i suoi innumerevoli viaggi e avventure, più o meno piacevoli, in tutto il mondo.
Si affronta il tema della politica negli anni in cui in Argentina le ingiustizie erano all’ordine del giorno e cominciavano a nascere i primi disordini anche in Italia.
Bechis partecipa molto a questa attività politica e di rimostranza, convinto che sia necessario prenderne parte, allo stesso tempo si sente molto distante da chi però vuole ottenere qualcosa con la violenza.
Dal momento del suo rapimento anche una volta in salvo dovrà convivere con il fantasma di questo suo trauma, e anche con un senso di colpa per esserne uscito intero, quasi fosse un privilegiato rispetto a i tanti che non ce l’hanno fatta. Questo diventa lo scopo della sua vita: denunciare le atrocità commesse verso altri esseri umani e farlo in modo che il dolore non resti una denuncia fine a se stessa, ma lasci una traccia nelle coscienze di chi lo guarda.
Molto ben scritto, mi ha incuriosito e sicuramente andrò a guardarmi ii suoi lavori cinematografici.
Manu Prato
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Andreina Rovere
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Sono stati scritti migliaia di libri e girati altrettanti film sulla crudele e sanguinosa dittatura che sconvolse l’ Argentina negli anni ’70 e ’80, eppure ogni volta leggerne uno (vedi Elsa Osorio, I vent’anni di Luz!) o vedere un film ci getta in una angoscia profonda, in uno sconcerto che solo noi europei nati dopo la guerra e abituati alla libertà e alla democrazia siamo in grado di provare. Il libro autobiografico di Marco Bechis non fa eccezione, per molti come me nati nello stesso anno di Bechis, ci fa provare sentimenti intensi, emozioni profonde, angoscia e dolore, come solo in quegli anni i giovani di quel paese e del vicino Cile, hanno provato. 19 aprile 1977. All’uscita della scuola dove studia, Marco Bechis viene sequestrato da un gruppo di militari in borghese. Ha vent’anni. Il racconto della sua tragica avventura esistenziale comincia qui, ma così come se quel giorno fosse un punto di accumulazione, Bechis ci fa arrivare a quel punto partendo dalla sua infanzia, dalla sua formazione, dalla sua famiglia cosmopolita, tra L’Italia sconvolta dalle convulsioni degli anni 70 e 80 e l’Argentina avviluppata nella tragedia della dittatura militare che ha cancellato il peronismo ma soprattutto una generazione, la nostra. Bechis finisce in un carcere della polizia segreta Tramite canali pseudo diplomatici attivati dai genitori, ottiene la libertà, e torna in Italia. Ma lui è un sovversivo sopravvissuto, che ha ottenuto la libertà e la vita che tanti altri suoi amici e compagni hanno perso: e così di fronte a se stesso Bechis diventa un traditore. Solo scrivendo questo libro, riesce a chiudere i conti con se stesso e a capire di essere stato, anche lui come tanti, una vittima. Questo libro ci dà il profilo comune della gioventù rivoluzionaria maturata in quegli anni in quel continente, e Bechis diventa così una voce unica, quella di un paese ma soprattutto di un’intera generazione, testimone lucido, nell’aula del tribunale di Buenos Aires, che ha affrontato i suoi carcerieri alla sbarra, scegliendo di testimoniare con il cinema, con un libro, e con se stesso come accusatore, per dare giustizia ad una generazione anziché annullarsi nel buio del dramma vissuto.
Leonardo Pinzi
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Camilla Camilli
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Filippo Berruti
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Una testimonianza forte, da cui emerge il bisogno urgente di raccontare e raccontarsi. Nella narrazione si intrecciano con ritmo incalzante ricordi d’infanzia, sogni, incubi, atrocità dell’esperienza vissuta, senso di colpa per essere sopravvissuto, al contrario di migliaia di altri desaparecidos. La militanza rivoluzionaria mai completamente condivisa è uno degli elementi che sottendono per l’autore la ricerca della propria identità, per dare un senso alla propria vita. Il lettore entra subito in sintonia e non può assolutamente restare indifferente.
Ada Marchesini
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Marco si è sempre sentito più argentino che italiano. Nonostante la cittadinanza italiana ereditata dal padre (la madre era di Santiago del Cile), trascorre l’infanzia tra Brasile e Argentina e in giovinezza fa la spola tra Torino, dove il padre si è stabilizzato in quanto manager della Fiat, e la sua patria d’elezione, l’Argentina, all’epoca investita da travolgenti fermenti politici. Marco ha 22 anni e tanti ideali: partecipa alle lezioni serali di una scuola a Buenos Aires e vuole diventare maestro elementare nelle comunità di indigeni al confine con la Bolivia. Una vita normale, all’interno della quale l’entusiasmo per la costruzione di una società diversa, con maggiore partecipazione sociale non è che una componente. Eppure è il 19 Aprile 1977 e la sua esistenza prenderà una piega del tutto inaspettata: il sequestro all’uscita della scuola serale, il trasporto in un luogo di detenzione non meglio identificato a causa della benda che gli viene prontamente posta sugli occhi, un primo interrogatorio, infine la prigionia in quello che a posteriori si rivelerà essere il Club Atlético, uno dei numerosi campi segreti di detenzione destinati agli oppositori politici della dittatura militare di Rafael Videla. Ci ritroviamo subito a percorrere in un tutt’uno con il detenuto i luridi sotterranei del campo, i sensi rimasti sono costantemente all’erta per carpire quante più informazioni possibile: il rimbalzare incessante di una pallina da ping-pong da qualche parte in lontananza, la sensazione di umido e di sporcizia delle superfici della cella, l’eco delle urla di chi a turno viene sottoposto alla temibile picana. Il tempo del racconto è dilatato perché il terrore fa vivere ogni secondo con l’intensità di un’intera esistenza, tanto che quando dopo “solo” una settimana il prigioniero viene a sapere che (per intercessione del padre e per i suoi contatti con industriali vicini al potere politico) verrà liberato purchè non faccia più ritorno in Argentina, al lettore così come al protagonista sembra essere trascorsa un’eternità. Le peripezie per raggiungere l’aereo che lo ricondurrà finalmente dopo 4 mesi in Italia occupano altre numerose pagine, e chi legge si ritrova con il fiato sospeso nell’agonia di una liberazione che sembra imminente ma che non arriva mai. Nella restante parte del romanzo il ritmo narrativo rallenta e si ripercorre la storia dell’uomo che il protagonista è diventato: un regista affermato che documenta gli orrori del regime argentino tramite film e mostre, il quale però non riesce mai a liberarsi dell’angoscioso dilemma che dà senso al titolo: “perché io sono sopravvissuto e tanti altri no?”. Neanche il processo a cui testimonierà contro i suoi aguzzini e che si risolverà con una serie di condanne all’ergastolo riuscirà a placare quell’inquietudine, quel senso di profondo rimorso per essersi salvato mentre compagni e coetanei altrettanto innocenti perivano tra atroci sofferenze. In seguito al processo Marco Bechis si accinge alla stesura di questo magnifico romanzo che si legge tutto d’un fiato grazie a una prosa essenziale eppure mai scarna, disseminato di riflessioni personali, politiche, sociali, familiari che ci toccano profondamente. Una scrittura per sua stessa ammissione catartica, nata proprio dal bisogno di espiare un opprimente senso di colpa e per mezzo della quale l’autore riesce a riappropriarsi effettivamente e definitivamente della propria vita.
Eleonora Ficola
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Una storia sofferta, quella di Marco Bechis, dura da metabolizzare anche dopo averla già raccontata per immagini nei film. Passa alla scrittura cartacea forse proprio per liberarsene, o per riconciliarsi con quel passato burrascoso vissuto sotto la dittatura argentina, e insieme per rendere onore ai suoi genitori, coinvolti inconsapevolmente in quel dramma. “Che differenza c’è fra una tragedia personale e una collettiva, tra una madre che trattiene il dolore per sé e una che cammina con altre condividendo il suo?”. I suoi genitori hanno già perso un figlio e riescono a salvarne un altro, mettendo a rischio anche la propria vita. Guardando indietro ai suoi vent’anni, l’autore non trova molte differenze fra i gruppi armati italiani e quelli argentini: hanno, dice, il disprezzo della democrazia borghese, intruppandosi in una struttura militare dove le gerarchie decidono per i singoli. Non li condivide e viene espulso, si ritrova “non più compagno… su un’isola galleggiante senza identità”. Bechis è nato in Sud America, figlio di un funzionario italiano che, dopo aver lavorato a lungo in Argentina, ritorna in Italia. Quel passato argentino porterà Marco a tornarci dopo il diploma, contrariando il padre che ben conosce i pericoli della dittatura militare. Si ritroverà, senza grandi colpe, nelle terribili prigioni di Videla, sarà torturato e rischierà anche la pelle. Solo l’intervento paterno, facendo leva su vecchie amicizie, lo strapperà a quelle atrocità. In patria non accetterà di tacere. Si batterà prima a distanza, rivelando ciò che sa, poi, dopo la caduta della giunta militare, nei tribunali argentini, senza timori e reticenze.
Luca Antonio Catoggio
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Storia di una potenza incredibile, questa raccontata – non sempre con stile impeccabile, bisogna ammetterlo - da Marco Bechis. Certo, solo Dell’Arti può considerarla fiction e inserirla nella narrativa italiana. Certo, è una narrazione, chi lo nega, ma troppa autobiografia, e la parte più prettamente narrativa – i sogni – sono stati aggiunti su consiglio dell’editor. Ripeto, storia però potente che si fa leggere davvero volentieri, col fiato sospeso e con i muscoli tesi, perché svela gli anni terribili in cui in Argentina potere politico e militare si fusero e commisero atrocità devastanti, anni in cui si scompariva per un niente, per un sospetto, per aver partecipato a una manifestazione, perché qualcuno aveva fatto il tuo nome, in cui la tortura con la picana ti faceva tirar fuori nomi, luoghi, delitti, qualsiasi cosa. La storia dei desaparecidos narrata da chi c’era, e da chi – lo confessa, il narratore – è stato fortunato a nascere in una famiglia con contatti importanti, e per questo si è salvato.
Carlo Floris
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Una sorta di romanzo di formazione che pian piano si rivela un’autobiografia, per poi diventare un saggio e una cronaca asciutta di denuncia sociale.
Inizialmente non molto lascia presagire che l’autore stia raccontando di se stesso, ed è come se anche la scelta stilistica voglia riflettere il pudore dell’essere un sopravvissuto, il sentirsi colpevole invece che vittima.
A soli vent’anni, poco dopo essere uscito dalla scuola, a causa di presunte attività sovversive viene rapito da un commando militare e trasferito nei "sotterranei". L’autore rende palese l’impensabile: l’esistenza di un vero e proprio campo di concentramento nei bassifondi della città, che come un cuore pulsante nascosto, un’anima nera sconosciuta o negata, è teatro di interrogatori, processi sommari e soprattutto torture. Prima fra tutte la picana, strumento in origine utilizzato per indirizzare gli animali tramite piccole scosse elettriche, ma che in mano alla polizia argentina, con dedizione e perizia scientifica, diventa mezzo per provocare dolore attraverso le parti più sensibili in modo da costringere praticamente chiunque a confessare e fare i nomi dei complici. Chi resiste dimostra onore e lealtà, chi cede è un vile. Lunghi giorni e mesi di prigionia si susseguono, in un isolamento narrato in maniera essenziale, in cui i contatti umani sono negati e un solo sguardo, rubato, da solo può significare tutto: solidarietà e fiducia, ma anche timore e diffidenza: nemico e amico sono etichette labili e dai confini sempre più sfuggenti. Grazie a una felice scelta stilistica dell’editore, pur senza negare che il romanzo avrebbe meritato ulteriori aggiustamenti e qualche limatura, la trama si snoda in un percorso non lineare e il lettore scopre solo man mano i risvolti tragici di un’infanzia e poi adolescenza privilegiata solo in apparenza: la morte del fratellino, i rapporti difficili con i genitori, il senso di precarietà di un’esistenza a tratti apolide, a tratti in perenne fuga o esilio dalla patria del cuore. Spaccati di altre giovani vite, morti e sparizioni improvvise, delazioni, sospetti, un clima di continuo terrore che diventa quotidianità, completano un quadro straniante che rende difficile poter credere e ammettere che tutto ciò sia realmente successo. Bechis inizia allora a usare il suo vero nome, e pur nella consapevolezza che è stata la sua posizione di privilegiato a garantirgli la sopravvivenza, al contempo non può esimersi dal fare i nomi di chi sapeva e non ha fatto nulla per porre fine al massacro, limitandosi ad agire solo in maniera circoscritta e personalistica. Interessante la sezione centrale, in cui l’autore racconta gli sviluppi per la realizzazione del film di denuncia e l’avvio della carriera nel cinema. Toccante la parte finale, in cui a distanza di anni dai fatti narrati accetta, non senza difficoltà, di testimoniare al processo e riesce a denunciare in maniera accorata quanto avvenuto. Una denuncia mai schierata a priori: l’autore prende le distanze da chi nel suo gruppo aveva scelto la violenza a prescindere. Una denuncia su cui aleggia il dubbio, soprattutto alla luce dell’attentato che aveva causato la morte di quattro poliziotti: "che colpa avevano?", dirà più tardi uno dei sequestratori, abbattendo, anche solo per un istante, il muro che separa la vittima dal carnefice, l’amico dal nemico.
Elisabetta Bertoldi
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Potrebbe essere il racconto del ragazzo della porta accanto… quello che Marco Bechis fa dell’esperienza terribile, impossibile da accettare e quasi da credere, vissuta nelle carceri argentine nel periodo che va dal 1977, durante il quale sono state perpetrate le più vili efferatezze nei confronti di giovani che osavano ribellarsi al regime.
Marco Bechis racconta quasi sottovoce… i toni, anche nelle descrizioni più crude sono bassi, le vicende sembrano vissute da un altro, una distanza utile e necessaria per permettere di condividere tanto dolore. Un tono alto, incapace di tenere a bada sentimenti tanto dolorosi non avrebbe potuto produrre questo scritto.
La dicotomia tra i sotterranei clandestini, dove vite umiliate nell’animo e nel corpo sono il rovescio di una stessa medaglia, di quella città che apparentemente si muoveva nella normalità, soprattutto perché erano in molti a far finta di non sapere.
In alcuni passi la descrizione di fatti anche molto deludenti, come quando il prigioniero Bechis ha l’opportunità di uscire dal carcere per tornare a casa, ma ad un passo dall’aereo, ci si accorge che il suo passaporto è stato scambiato con un altro e così la sua libertà si allontana ancora, la sua reazione è comunque anche in questo caso senza enfasi, tra il tacere ciò che sente e la rassegnazione ai fatti.
Questo narrare così pacato fa apprezzare ogni parola, ogni sensazione esplicita o sottintesa, producendo nel lettore uno stato d’animo di accoglienza, perché l’autenticità, mai inquinata da eccessi, fa sì che questo periodo storico- politico venga compreso nella sua assurda incongruenza, fino a chiedersi il limite tra il sentimento umano e la bassezza a cui si possa giungere.
Più che un romanzo è una cronaca, un’agghiacciante cronaca!
Anche il processo contro i carnefici, celebrato parecchi anni dopo il vissuto di tanti eccidi, ha l’idea di un punto a tanto abominio più che di una vittoria.
Maria Sofia Aversa
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Marco Bechis ci racconta la sua storia complessa e dolorosa. Lo troviamo bambino in Argentina, ci descrive i suoi ricordi infantili e fra tutti emerge il tragico incidente in cui perde il fratellino e la sua famiglia si congela nel dolore. Cresce poi fra l’Argentina e l’Italia: rivive gli anni inquieti dell’adolescenza e della vita da giovane adulto irrequieto e ribelle. Mentre la sua famiglia decide di trasferirsi definitivamente in Italia, lui contro tutti torna a vivere in Argentina. Qui trascorre le giornate in locali fumosi e senza una vera meta verso cui aspirare. Fino a quando comincia a frequentare un gruppo di giovani di opposizione del gruppo dei Monteneros e inizia a collaborare con le loro azioni di protesta, non condividendo però pienamente i loro modi di agire e il principio delle vittime collaterali. Un giorno la sua vita si ferma: come prigioniero politico viene arrestato in un carcere clandestino dove subisce diverse angherie prima fra tutti la picana e la perdita della speranza di sopravvivere. Questo episodio lo segnerà in modo indelebile, condizionando irreversibilmente la sua vita da adulto.
Romanzo indubbiamente ben scritto e di buona qualità. Ho trovato però lo stile troppo asettico: Bechis racconta la sua storia come fosse una cronaca, non riuscendo a suscitare, almeno in me, delle vere emozioni.
Francesca Fanucci
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Il libro non sembra scritto per intrattenere il lettore ma solo per informarlo sulla storia dei desaparecidos argentini (vissuta in prima persona dall’autore) e sconvolgerlo. L’effetto però non è quello disturbante e partecipato che si sarebbe potuto ottenere mettendo in scena gli eventi ma una lettura distaccata data attraverso il filtro del racconto, difatti i dialoghi diretti sono quasi totalmente assenti.
Che il libro non sia costruito come un romanzo lo testimonia anche il fatto che gli episodi non siano restituiti nel classico arco dell’eroe, che si conclude a metà libro, ma secondo il reale svolgimento temporale che manca della climax necessaria.
Valentina Federici
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Recensione: Una
narrazione incalzante, sospesa tra realtà e pensieri offuscati dalle
condizioni in cui si trova il personaggio principale, DONA al lettore la
necessità di non potersi interrompere. La medesima vicenda, tra
l’altro, pone l’accento su di una serie di tristi eventi che hanno
caratterizzato, nel succedersi, la storia dell’Argentina. Il lasso di
tempo interessato fa si che si riesca anche ad avere un quadro completo:
inizio tragico e finale dettato da una giustizia, non esaustiva, ma che
comunque ha posto l’accento sul carattere brutale del POTERE in cui la
violenza umana ha il sopravvento in antitesi con la malattia epocale di
voler cambiare il mondo. Rosario Colaizzi Napoli
GIUDIZIO: Ottima
prosa scorrevole che pone l’accento, tra l’altro, con il periodo
storico in cui la stessa generazione voleva modificare l’assetto sociale
e politico del mondo ricevendone, spesso, risposte violente e
riproposizione dello status quo.
Rosario Colaizzi
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Marco Bechis con questa narrazione mette un punto fermo, per quanto possibile, alla lunga stagione esistenziale segnata dall’arresto e dalla tortura subite durante la dittatura militare argentina, dalla liberazione e quindi dall’esperienza di reduce combattuto tra esigenza di giustizia e senso di colpa per essersi salvato. Il libro ripercorre la vicenda personale dell’autore restituendo in maniera efficace non solo le dinamiche interiori da lui vissute ma anche il clima culturale e politico dell’epoca, specialmente dei giovani argentini, e italiani, in un momento storico di grandi speranze, di grandi scontri, di violenza e di illusioni infrante. Un libro utile e necessario, che fa venire voglia di approfondire la storia di quel periodo e di vedere i film dell’autore.
Roberto Falciola
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Marco viene sequestrato dai militari in Argentina e, dopo trent’anni, trova il coraggio di raccontare la sua tragedia e la sua vita.
Si mette a nudo come durante una seduta di psicoanalisi e descrive la sua vita con fatti precisi, ma anche con sensazioni che ci trasmette. La scrittura è veloce, asciutta, inesorabile e alterna i toni del thriller e del racconto storico.
Mi sono sentita coinvolta, calata nel racconto e, dopo averlo concluso, ho avuto bisogno di tempo per metterlo in prospettiva. Ho trovato la parte relativa al ritorno in Italia meno coinvolgente, ma nel finale ritorna l’intensità della scrittura.
Marina Fazzari
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Non ho particolarmente apprezzato il libro, ma non posso neanche dire di averlo disprezzato. La narrazione filava. Il problema è che non mi ha lasciato quasi niente, se non la curiosità di andare a ripassare quel pezzo di storia, la voglia di andare a rileggermi Gabriel García Márquez e inoltrami finalmente in Borges.
Viola Manni
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Marco Bechis è un regista e sceneggiatore italiano nato in Cile, che ha vissuto a lungo in Argentina durante il periodo del generale Jorge Rafael Videla. Proprio qui negli anni ’70 viene sequestrato e imprigionato per diversi mesi. La solitudine del sovversivo è una lenta discesa nei ricordi di quei mesi drammatici. Ha venti anni Marco Bechis quando frequenta la scuola serale di specializzazione per diventare maestro elementare. Quella sera è insieme a Dayin la ragazza di cui è innamorato e con cui ha appena fatto pace, organizzano una cena per cercare di dare una direzione a quel rapporto così altalenante fra di loro quando vengono aggrediti da dei militari in borghese. Dayin la lasciano andare, Marco no. Viene buttato tra i sedili di un Ford Falcon e comincia a essere picchiato fin da subito. Dopo un breve in tragitto si ritrova in un magazzino, insieme ad altre centinaia di persone in uno di quei posti tristemente famosi come camere di tortura, quelle prigioni clandestine che hanno segnato per sempre la storia del paese sudamericano.
Il libro è qualcosa che va al di là della cronaca dei fatti. Si alternano il racconto delle torture fisiche e psicologiche e i flashback del passato di Bechis, con il ricordo dell’amato fratellino scomparso prematuramente e il rapporto con i suoi genitori. Si giunge alle analisi delle circostanze che lo hanno portato fin lì e alle possibilità di riuscire ad andare via in condizioni dignitose. Il libro diciamolo pure è un pugno allo stomaco. Si apprende la crudeltà, si impara cos’è la picana, si scende nell’abisso del terrore di non uscire vivo da una situazione o di uscirne a pezzi, fisicamente e mentalmente.
Non conoscevo nessuno dei due autori e quindi credo di essere stato molto neutrale, ho cercato i loro nomi solo dopo aver letto entrambi i libri.
Gino Pisotta
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Preferito: La solitudine del sovversivo
La solitudine del sovversivo
Ci sono alcune storie che è difficile dimenticare, la vita di Marco Bechis è una di queste.
Un’emozionante autobiografia dal sapore romanzesco.
Lo stile risulta incalzante e scorrevole, di facile lettura e, sopratutto nella prima metà, estremamente appassionante.
L’autore racconta la sua vita in una sorta di diario che ripercorre tutte le fasi più catartiche fin dalla prima infanzia, si parla della sua famiglia, molto anche delle sue origini e di quelle molto diverse di padre e madre.
Un attenzione particolare viene data alla contestualizzazione dei vari luoghi differenti che via via lo accompagnano e si nota in attenzione particolare e nostalgica verso tutto ciò che riguarda l’Argentina.
Gli amici, la perdita di un fratello e i trasferimenti sono tutti tasselli importanti alla ricostruzione del puzzle della sua vita, ci fa entrare nella sua testa e nella sua intimità senza filtri, spesso autogiudicandosi anche in maniera troppo dura e poco lucida.
Molti sono gli sbalzi temporali e le riflessioni che interrompono i singoli momenti ma ciononostante seguono sempre un unico flusso di pensiero, rendendo la lettura comunque molto lineare.
Il ritmo cala drasticamente nella sezione che riguarda la sua esperienza artistica e il suo percorso da regista, ma fortunatamente circoscritto a una breve parentesi della narrazione. Capisco perché ovviamente fosse necessario inserire anche quelle fasi ma forse lo stile è diventato leggermente più piatto e le esperienze più ripetitive in quel frangente.
Indubbiamente più interessante il come si arriva a diventare quella persona piuttosto che cosa fare una volta raggiunta la consapevolezza.
Conoscevo a grandi linee la storia dei desaparesidos, ma grazie a questo testo ho potuto approfondirne molti aspetti scavando più a fondo in questo buio momento, così paradossale quanto doloroso. La tragedia nella tragedia, l’uomo che in maniera cosciente e completamente innaturale riesce a massacrare la sua stessa specie, tutto questo viene affrontato con grande delicatezza e apprezzabile umanità, chiudendo il cerchio a processo concluso.
È stato un esperienza di lettura istruttiva è molto interessante.
Il fatto che non sia una semplice ricostruzione storica ma una testimonianza concreta ha reso l’esperienza meno didascalica e molto più coinvolgente.
Ludovica Maccaferri
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Vittorio Iansiti
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Ho iniziato a leggere La solitudine del sovversivo con un po’ di timore. Quando ho capito che l’autore ci avrebbe raccontato la sua esperienza vissuta nelle carceri dei desaparecidos durante il regime di Videla, ho temuto la descrizione delle torture e delle violenze. In realtà, quello che ho trovato in queste pagine è il ritratto molto umano del protagonista, combattuto tra gli ideali di pace e libertà e la logica della militanza sovversiva. Marco era un giovane di buona famiglia, ed è proprio la famiglia a salvarlo: come dimenticare la dignità dolorosa della madre che assiste il figlio in carcere fino alla fine, con esemplare determinazione? Nell’atrocità delle prigioni, sotto la minaccia della picana, anche la solidarietà tra detenuti viene meno, perché salvarsi equivale a tradire. Una lettura per certi versi indispensabile per conoscere il nostro passato e le storie di resistenza e redenzione che ci riportano qui.
Renata Enzo
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Il racconto degli anni più bui vissuti dall’Argentina fatto da chi li ha vissuti in prima persona. Coinvolgente ma non troppo, a volte un po’ troppo lungo nelle descrizioni. L’argomento mi è sempre interessato tanto da aver voluto visitare Cile ed Argentina. Mi aspettavo un romanzo ho trovato un report a volte anche freddo. Non so perchè ma l’autore non è riuscito a trasmettermi l’orrore che deve aver provato. Indubbiamente un testo di denuncia ma forse oramai siamo tutti un po’ anestetizzati dalle continue notizie di orrori che i media ci vomitano addosso quotidianamente.
Gabriella Soresi
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Autobiografia di Marco Bechis che ci racconta la sua vita fra Cile, Brasile, Italia e Argentina. Pretesto è il sequestro a Buenos Aires da parte della polizia e da lì Bechis ci racconta la storia della sua vita facendolo in prima persona. Dalla morte del fratello ai suoi amori alla sua famiglia e ai suoi amici sovversivi avvicinandosi al movimento di opposizione dei Montoneros che lo porterà al sequestro e alle torture. La scrittura è scorrevole, ma anche troppo descrittiva e confusionaria. Si evince una forte dicotomia: Marco si sente eroe e traditore, colpevole e innocente e la sua irrequietezza viene trasposta al meglio nelle sue parole. Purtroppo, però, non mi ha coinvolta come speravo.
Eliana Tripaldi
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Teresa Santini
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Marco Bechis racconta la sua vita segnata profondamente dai gravi fatti accaduti negli anni settanta in Argentina, con migliaia di persone “scomparse” durante regime militare. Storie di abusi, sevizie, torture e morte inflitte agli oppositori del regime, anche solo sospettati di esserlo, senza alcuna possibilità di sottrarsi al carcere e all’isolamento, alla paura di non ritornare più alla vita là fuori e di subire su corpo e mente il terrore e il dolore delle torture. Marco ha amici che si mobilitano, ha un padre dirigente industriale che ha conoscenze influenti che lo faranno uscire, marchiato indelebilmente dalle sofferenze patite. Il suo racconto è nitido e coinvolgente. I suoi ideali rivoluzionari lo porteranno a fare scelte impegnative, a scontrarsi con la famiglia, a pagare di persona un prezzo molto alto che lo porterà a ricercare negli anni successivi il senso profondo di quanto accaduto nei sotterranei segreti della milizia, a lui e a tutti gli altri, e a comunicarlo attraverso il cinema, gli incontri e infine a testimoniare in Tribunale in Argentina difronte a quei militari arrestati alla caduta del regime e indagati per crimini contro l’umanità.
Maria Mabilia
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Questo è un racconto e per scriverlo ho tradito persino la mia lingua. Finisce così lo splendido e inesorabile testo di Marco Bechis, che conoscevo e ammiravo come regista di “Garage Olimpo” e “Figli/Hijos”, film indimenticabili e puntuali sul dramma dei desaparesidos.
La scrittura è agile e coinvolgente, con salti temporali efficaci, in un crescendo di stati d’animo perfetto. Non si cede mai alla retorica in questo libro, tutto è così spontaneo, e i dubbi che l’autore pone anche al proprio operato e alla propria sorte è segno di una grande onestà intellettuale.
Carlo Bonato
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Conoscevo il nome di Marco Bechis per aver visto anni fa il suo film “Garage Olimpo” che svelava gli orrori della dittatura di Videla in Argentina. In seguito ho seguito le tracce delle “abuelas de plaza de majo” nell’appassionata ricerca dei desaparecidos e anche per questo l’argomento del libro mi ha subito coinvolto. Il racconto è scritto in uno stile che definirei “giornalistico”, senza fronzoli né compiacimenti, ma comunica una tensione che non ti molla mai, in tutti i piani temporali della vicenda autobiografica. Si “vedono “ le scene, di vita quotidiana come la detenzione e la tortura, attraverso le parole volutamente semplici ed efficaci che arrivano al cuore del lettore, o almeno al mio cuore, senza filtri né attenuazioni.
E’ un libro storico che mette di fronte ad avvenimenti ancora inesplorati fino in fondo e che devono essere svelati nella loro crudeltà, sperando che ciò possa servire a rendere un po’ migliore l’umanità che lo legge.
Sono grata a Marco Bechis per averci fatto partecipi con tanta sincerità della sofferenza sicuramente patita nel ricordare scrivendo.
Rosanna Tasca
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Non conoscevo Marco Bechis se non come regista del documentario “Rumore della memoria del 2015. È stata, quindi, una sorpresa leggere delle sue tristi vicissitudini. Una vicenda terribile che lui racconta da quando il 19 aprile 1977 a Buenos Aires venne sequestrato da una squadra di militari in borghese e imprigionato nei sotterranei del Club Atlético, uno dei campi di concentramento clandestini del regime di Videla, il “mondo di sotto” dove regnano la violenza e la tortura, ma anche la manipolazione. L’accusa era quella di essere un rivoluzionario vicino al movimento oppositore dei Montoneros. Grazie all’intercessione di un industriale argentino, amico del padre, dirigente della Fiat che aveva lavorato in America Latina, riesce a salvarsi.
Ma rimarrà in Bechis per sempre una sorta di sindrome del sopravvissuto, un forte senso di colpa e di inadeguatezza che gli fa scrivere anche in questo testo autobiografico “La mia pelle muta sempre, sono l’eroe e nel contempo il traditore” […] “Se io sono qui ancora a parlare, vuol dire che tutti gli altri sono morti”. Un libro duro, intenso, ma straordinariamente “vero”.
Liliana Contin
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Quando
ho iniziato a leggere questo libro avrei voluto subito richiuderlo, mi
sentivo incapace di affrontare gli eventi a cui si riferiva. Anche ora
in qualche parte del mondo sicuramente uomini perpetrano efferate
violenze su altri uomini. Il male sembra non avere mai fine.
Poi mi
sono detta che nel 1977 anch’io avevo poco più di vent’anni e il cuore
pieno di sogni di un mondo più giusto. E l’ho riaperto. Ho ripercorso
con Marco uno dei troppi gironi infernali che l’uomo ha dovuto
attraversare.
Un libro lucido, pieno di dolore senza accanirsi sul
dolore. Il dolore fisico, il dolore di essere sopravvissuto a tanti
giovani che non potranno mai raccontare la loro storia.
E infine la necessità di raccontarsi, di passare in qualche modo il testimone, di sconfiggere ”la solitudine del sopravvissuto”.
Il mio papà diceva “la guerra non si può raccontare”. E forse noi non vogliamo che ce la raccontino.
È
un libro che, invece, deve viaggiare, essere letto. Non è un libro
autobiografico, è un libro che ci mette di fronte ancora una volta “
all’essere umano bifronte” e ci interroga chiedendoci quale faccia
vogliamo mostrare al mondo.
Laura Primon
* * *
Finalmente un libro che non è un giallo con una indagine per scoprire il
colpevole di un delitto, e non è una storia d’amore fra due persone
dello stesso sesso.
In questo racconto l’autore parla di una sua
esperienza vissuta nel 1977 in Argentina quando fu fatto prigioniero è
torturato da apparati specializzati dell’esercito che arrestavano i
componenti dei gruppi armati che lottavano contro il regime. Dal
carcere il protagonista con l’aiuto del padre che aveva legami con
l’ambiente governativo viene liberato, ma per il resto della sua vita
elabora il momento e non si capacita di come lui ne sia uscito, mentre
molti dei prigionieri sono morti. Ma la vita a fatica continua e lui
che fa parte della generazione che ha visto i cambiamenti tecnologici
soprattutto nel settore della fotografia e del cinema usa questi mezzi e
elabora la sua esperienza prima con una mostra fotografica fatta con
foto polaroid e poi con il cinema. Libro da leggere per cogliere le
riflessioni di un regista su una generazione e sui cambiamenti sociali
di fine Novecento.
Irma Dionese
* * *
Il libro è una straordinaria testimonianza di quello che è stata la violenza politica in Argentina negli anni 70 del Novecento.
Nella
prima parte lo scrittore racconta la sua vita di adolescente, figlio di
padre italiano e madre cilena, che vive in modo agiato tra Italia e
America Latina. E’ l’Argentina il paese che Bechis considera suo e dove
sceglie di abitare senza rendersi veramente conto di quello che sta per
accadere.
Si sente che Bechis è regista perché lavora anche qui sul
montaggio: non racconta i fatti cronologicamente, ma inserisce
continuamente dei flashback, alternando i ricordi del sequestro, della
prigionia nei terribili sotterranei del Club Atlético, alla sua vita a
Milano, agli studi universitari, al processo, dopo trent’anni, contro i
responsabili dei crimini della dittatura al Tribunal Oral Federal di
Buenos Aires. Qui, potendo guardare in faccia i suoi aguzzini, si sente
finalmente una” vittima” e non un “traditore”.
Con sguardo lucido racconta non solo il suo dramma, ma quello di un popolo e di un’intera generazione eliminata dalla storia.
Mario Guderzo
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Libro potente questo di Bechis.
Molte volte, e in forme diverse,
il tragico destino dei sopravvissuti è stato analizzato e raccontato: è
la dura condizione di chi ha vissuto eventi duri, ingiusti, che segnano
indelebilmente e che condannano per sempre al ricordo e alla
reminiscenza, tra senso di ingiustizia per quanto si è vissuto e senso
di colpa per quanto, a differenza di tanti altri, si è superato.
Già
la visione del film Garage Olimpo (dello stesso autore), aveva smosso in
me un sentimento empatico, rispetto all’enorme fatica fatta, per
l’intero arco della vita, da chi ha vissuto simili esperienze.
Voglio
pensare che questo libro sia stato scritto per auto-terapia…in fondo
l’Argentina di fine anni ‘70 è stata narrata innumerevoli volte.
Voglio
augurarmi che la testimonianza approfondita e reiterata sia essa stessa
medicina e consolazione e che l’accesso a tale pensiero risponda alla
domanda “perché a me?” che sicuramente dilania e spieghi il destino di
certe condizioni umane.
Laura De Marchi
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Libro che racconta la prigionia nel campo di concentramento club di Atletico di un Italo-argentino sopravvissuto alla dittatura argentina. La prima parte molto interessante, la seconda un po’ meno con parecchie ripetizioni.
Maristella Drago
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La solitudine del sovversivo è una biografia completa che inizia con
grande tensione, scritta con ritmo incalzante e lucido. L’autore ci
racconta il suo vissuto e la sua colpa per essere sopravvissuto rispetto
a tutte le persone scomparse. Attraverso la sua vicenda personale ci
rende partecipi della storia dell’Argentina dei desaparesidos.
Nomi, luoghi e persone creano la storia, ma anche il suo percorso artistico e in qualche modo catartico.
Graziella Pivotto
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Giuseppe Riccio
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Salvatore Balsamo
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Mario Cottone
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Eliana calandra
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Utilizzando una prosa nevosa e lucida Marco Bechis conduce il lettore attraverso il labirinto dei suoi ricordi al fine di risolvere il dilemma della sua vita: un sopravvissuto è un traditore? Thriller ma anche romanzo storico e biografia, il romanzo di Bechis ricompone i tasselli della sua tragedia personale in un continuo alternarsi di flash-back spazio-temporali tra ricordi antichi ed eventi più recenti. Durante il periodo della dittatura di Vileda in Argentina, un fatidico giorno di aprile del 1977, il giovane Marco, appena ventenne, è rapito, all’uscita della scuola per maestri da lui frequentata, da un gruppo di poliziotti in borghese , da lì è condotto, bendato, in un locale sotterraneo da cui egli comprende subito che pochi riescono ad uscirne vivi. Bechis ci riuscirà dopo quattro mesi di fame, sofferenze e torture inaudite , tra tutte, la pratica della picana con cui i prigionieri, denudati e legati su una tavola, sono sottoposti a scariche elettriche di varia intensità. Marco riacquisterà la libertà grazie al suo passaporto italiano ed alle influenti amicizie del padre, dirigente Fiat a Milano, ma con una carriera sviluppatesi anche in Brasile ed Argentina. L’opera è suddivisa in tre sezioni con stile e caratteristiche diverse: la prima parte, relativa al periodo della formazione del ragazzo, della sua detenzione ed ai dettagli della sua liberazione ha un andamento veloce ed avvincente, da thriller, il ritmo è concitato, gli avvenimenti si susseguono in un crescendo di drammaticità, la narrazione è spietata e l’autore non risparmia nulla al lettore. La seconda parte è la gestazione di un dolore: Marco sente di essere un traditore perché è rimasto vivo, ripensa agli amici con cui aveva condiviso gli ideali di rinnovamento politico, ai Montoneros, a Pablo, a Muňeca, ai vari compagni della prigione lasciati al “ Club Atletico “ e sente rimbombare in mente la domanda postagli l’ultimo giorno: “ Chi sei? Perché te ne vai? Chi sei?” . L’incontro con Enrique Ahriman lo aiuta a cercare una risposta alla sua sofferenza nell’espressione artistica, la settima arte sembra offrirgli il modo di placare in lui questo complesso del “ sopravvissuto “ per trasformarsi in testimonianza visiva da offrire al mondo. Bechis narra dunque della gestazione della sua coscienza ma anche della sua carriera cinematografica, dai primi documentari alle collaborazioni con Fellini, al deludente incontro con Borges che resta indifferente al racconto dell’esperienza da lui vissuta al Club Atletico, sino alla realizzazione di film importanti tra cui “Garage Olimpo” sugli orrori della dittatura in Argentina, sui desaparecidos e sui tanti morti precipitati nel Mar della Plata. “…porto nell’anima una ferita profonda per tutto quello che non è successo e mi poteva succedere e per tutto quello che invece è successo a migliaia di altri.” scrive Bechis. Questa sofferenza che traversa tutta la sua vita , il sentirsi un privilegiato e dunque un traditore perché vivo, l’isolamento che ne deriva, tutto ciò si risolverà, alla fine, nel momento in cui egli decide di testimoniare di presenza contro i suoi aguzzini nel processo de 2010 svoltosi al Tribunale Oral Federal di Buenos Aires; sarà solo in quella occasione che egli comprenderà finalmente di essere un sopravvissuto ma , di fatto, anche una vittima: “ …dopo tanti anni vissuti come un usurpatore, come un traditore perché sopravvissuto agli altri, finalmente sono diventato una vittima.” Il lungo elenco di nomi dei condannati , nella terza parte del libro, sembra scandire e marcare con forza il compiersi di questo processo; trenta anni dopo la sua prigionia. Il libro diviene, dunque, strumento politico, l’ultimo atto di una testimonianza di vita che è, anche, denuncia di un regime dittatoriale e delle atrocità perpetrate in Argentina in quegli anni. Il ragazzo agiato che preferisce alla comoda e lussuosa carriera di ingegnere in Italia quella di maestro in Argentina perché convinto che, per operare una vera rivoluzione sociale e formare le coscienze, si dovesse partire dall’educazione dei bambini, realizza infine se stesso in campo artistico, come regista di film quali “ Garage Olimpo” o“ Hijos” . Il romanzo è denso di emozioni e potente come un pugno nello stomaco, obbliga il lettore ad apprendere la verità di quegli anni senza edulcorazioni e senza sconti; forse qualche lentezza nel ritmo della seconda parte, ma il contenuto e la sincerità della sofferenza vissuta e descritta così magistralmente permettono di scusare qualche pecca.
Rosella Balsamo
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Annalisa Cannata
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Marco Beccali
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Rosana Rizzo
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Viviana Conti
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Marco Bechis, La solitudine del sovversivo punti 1. Interessante romanzo e memoir di denuncia quello del regista italo-argentino Marco Bechis, che in una narrazione lucida e nel contempo appassionata rievoca i suoi trascorsi di ex militante di Lotta Continua e di ex desaparecido, sopravvissuto agli orrori ed alle torture subite per un tempo lunghissimo nel campo di internamento sotterraneo del Club Atlético, in Argentina, sotto la dittatura di Videla: ne uscirà vivo grazie ai contatti e alle amicizie influenti del padre, dirigente della Fiat. Vale la pena di ricordare che anche un altro autore coetaneo di Bechis, e cioè Massimo Carlotto, aveva già scritto qualche decennio fa due libri potenti sugli stessi temi e sulle medesime esperienze: Il fuggiasco e Le Irregolari/Buenos Aires horror tour, apprezzatissimi dal pubblico italiano. L’impianto narrativo de La solitudine del sovversivo evidenzia una prima parte più strettamente autobiografica - e non si stenta a credere quanto sia stato difficile, ma anche salvifico per l’autore ripercorrere il dolore con la scrittura- ed una seconda parte in cui Bechis comincia a maturare l’idea, che prende sempre più corpo fino a diventare vera ossessione, di trasporre su pellicola il suo vissuto e quello degli altri dissidenti che non ce l’hanno fatta: nascono film dal fortissimo impatto emotivo come Garage Olimpo e Hijos. Nell’ultima parte del libro, Bechis riporta le fasi salienti del processo ai suoi torturatori, una sorta di Norimberga argentina svoltasi più di trent’anni dopo i fatti accaduti, in cui lui stesso assunse il ruolo di testimone. Bechis è il simbolo di una generazione che ha voluto e saputo rispondere alla violenza con la giustizia: un’eredità preziosa che la società civile ha il dovere di custodire per le generazioni che verranno.
Neva Galioto
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La storia si snoda lungo l’arco di un trentennio :un primo momento quando il19 aprile 1977 Marco Bechis, appena ventenne, viene sequestrato a Buenos Aires da un gruppo di militari in borghese, all’uscita della scuola per maestri e trasferito in un campo di concentramento dove sarà umiliato e torturato.Bechis ha un passaporto italiano, il padre è un dirigente Fiat, molto importante, che ha lavorato in Cile, in Brasile. in Argentina, con molte conoscenze e agganci.Proprio questo lo salverà ma si insinuerà come un tarlo nella sua mente perché la fortuna sua lo allontanerà dagli altri e il privilegio andrà a braccetto con la solitudine. Trent’anni dopo Bechis assisterà al processo dei suoi carnefici e darà la sua testimonianza. La vicenda si snoda in un crescendo e in una spirale di risvolti psicologici che catturano l’attenzione e coinvolgono emotivamente, affiorano tanti interrogativi come sempre in chi sopravvive ad una sciagura, i prezzi di mosaico di una vita e di una società vengono ricomposti con cura e precisione.Garbato e lo stile, raffinato il gioco sapiente di pause e dialoghi, perfetto il chiaroscuro formale.Lo sguardo autobiografico è lucido nell’analisi, senza enfasi o autocommiserazione Il groviglio delle emozioni viene sciolto accuratamente, comunicando al lettore la consapevolezza di un dramma personale inserito in un dramma più vasto, sociale dove alibi e responsabilità spesso mascherate tirano i fili di personaggi che, come burattini, recitano sulla scena della vita.
Gemma Alfano
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Come dimenticare l’Argentina degli anni’70? Non quella dei mondiali, impressi di certo nella memoria collettiva, ma quella della dittatura militare di Videla, dei massacri quotidiani, dei desaparecidos. All’inizio del romanzo l’autore, Marco Bechis, è un adolescente, proviene da una famiglia benestante, il padre è italiano e la madre è cilena. Nel 1977 ha vent’anni, ha lasciato gli studi a Milano e frequenta a Buenos Aires una scuola per diventare maestro elementare. È amico di alcuni oppositori al regime, i Montoneros, a causa di ciò viene sequestrato da una squadra di militari in borghese e portato nelle carceri clandestine, nei sotterranei del Club Atlético, luogo da cui nessuno è mai uscito vivo. Per quattro mesi subisce sevizie, anche le torture con la terribile picana, interrogatori duri e violenti, ma alla fine, grazie all’intervento del padre, un importante dirigente della Fiat, viene liberato e può tornare in Italia. Finisce così la sua tragica vicenda, ma in Bechis subentra il senso di colpa dei sopravvissuti. Chi è intervenuto per salvarlo non ha fatto lo stesso con gli altri prigionieri dei sotterranei, sapeva ma ha taciuto, lasciando gli altri detenuti nelle mani degli aguzzini, al loro ineluttabile destino. Dopo la liberazione l’autore alterna vari stati d’animo, nel continuo dilemma che lo logora: eroe o traditore? È ossessionato dal pensiero di essere l’unico sopravvissuto a quell’inferno, dal fatto che nulla si è potuto fare per gli altri prigionieri, se non testimoniare gli orrori visti, sentiti e vissuti. Dal dovere della testimonianza nasce il Bechis regista di Garage Olimpo e di Hijos. La protagonista di Garage Olimpo è Maria, che nella ideazione originaria del film sopravvive alla prigionia e si salva, così come è accaduto a Marco. Ma la storia di Bechis costituisce un’eccezione, la sorte di tutti gli altri reclusi era l’esser gettati nel Mar de la Plata, lo scomparire. Acquisita questa consapevolezza, il nostro regista modifica il finale di Garage Olimpo e Maria segue la sorte di tutti gli altri internati nei campi di concentramento argentini. Il dramma interiore dell’autore, lungi dal risolversi, dopo la regia dei film si acuisce ancora di più, consapevole dell’unicità del suo destino. La svolta avviene nel 2010 durante il processo contro gli aguzzini dei campi di prigionia segreti che si svolge a Buenos Aires. La sua testimonianza al processo è chiara e dettagliata, si sofferma su ogni particolare ricordato, riferisce persino i nomi di chi aveva trattato la sua scarcerazione senza preoccuparsi della sorte degli altri prigionieri, non mantenendo così la parola data dal padre sulla segretezza delle operazioni riguardanti la sua liberazione. Lo farà in nome della verità e la verità lo rende libero: Bechis, trent’anni dopo, guardando in faccia i suoi silenti aguzzini, è finalmente consapevole di non essere né un eroe né un traditore, ma solo una vittima. La rielaborazione dei fatti avvenuta durante le fasi del processo e le severe condanne inflitte a quasi tutti i responsabili dei crimini della dittatura, danno avvio ad un processo di liberazione interiore da cui prende vita La solitudine del sovversivo. L’autobiografia di Marco Bechis alterna nella narrazione ai toni forti del thriller quelli analitici del romanzo storico e di formazione. Si susseguono momenti e ritmi differenti: veloci e incalzanti quelli relativi al sequestro, alla detenzione e alla liberazione, lenti e dettagliati quelli che riguardano le dinamiche e i conflitti familiari e gli approfondimenti storici su cui l’autore si sofferma in maniera precisa e puntuale. È un romanzo che non può lasciare indifferente il lettore, lo scuote in profondità. La crudezza nella descrizione di alcuni dettagli relativi alle torture e alle violenze subite non è mai gratuita, anzi è un atto dovuto, un debito saldato per conto di chi non può più raccontare ed un monito alla vigilanza rivolto a ciascuno, perché “la memoria, se non serve nel presente a costruire un futuro, non serve a nessuno”.
Caterina pietravalle
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Stefania Oliveri
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Marussia Pastacaldi
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Bechis con La solitudine del sovversivo fa definitivamente i conti col suo passato da desaparecido nell’ Argentina degli anni 70 dilaniata dalla terribile dittatura dei colonnelli, e lo fa con una scrittura asciutta e precisa. Il suo racconto a metà tra diario familiare e confessione convince e rapisce e ci accompagna dall’infanzia del protagonista, fino al confronto che Bechis avrà molti anni dopo in un’aula di tribunale al cospetto dei suoi aguzzini. Il protagonista, come si può intuire, uscirà distrutto da questa esperienza allucinante che gli lascerà in eredità la sindrome del sopravvisuto, una terribile condizione psicologica difficile da gestire. Molto d’effetto sono i salti temporali all’interno del romanzo che donano il giusto ritmo necessario a stemperare un racconto doloroso. Veramente consigliato.
Anna Esposito
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Chiara Munerato
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Giuseppa Geloso
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Simone Brognoli
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Mirella Signori
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Carlo Alberto Basile
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Rachele Baresi
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Germana Grazioli
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Emma Dovano
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Marilù Cosma
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Un libro non semplice. Diviso in due grandi capitoli, il terzo è in realtà l’epilogo, dei quali il primo è la caduta all’inferno del Club Atletico, dove i ricordi della vita precedente sono il salvagente per non soccombere al dolore e alla paura, tangibili anche per chi legge, mentre il secondo è la lenta rinascita grazie all’arte, dopo tanto vagabondare. Un libro che fa male e che lascia tanto amaro in bocca per ciò che non si saprà mai e per le mancate condanne di tanti responsabili morti prima del processo. Libro comunque necessario per non dimenticare.
Rosangela Usai
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Rita Foresi
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Luigina De Santis
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Annamaria Ciarelli
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Maria Rosaria La Morgia
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Il libro narra la drammatica vicenda umana e politica dell’autore, sequestrato a Buenos Aires il 19 aprile 1977 durante il regime militare, sottoposto a sevizie nel sotterraneo definito " Club Atletico", dove, bendato, diventa il detenuto A01, un cieco capace di schedare solo voci, suoni, rumori, le catene, il passo strascicato degli altri prigionieri, le urla dei torturati, la pallina di ping pong che rimbalza, il transitor acceso per gli incontri di calcio, la voce dei carcerieri "il buono" e "il cattivo", dove sperimenta anche una sessione di "picana" il pungolo elettrico usato sui corpi per indurre a parlare. Sarà liberato dopo quattro mesi solo grazie all’intervento di conoscenti influenti dei suoi familiari, Ma per molti altri compagni la sorte non è la stessa. Durante la sua vita di sopravvissuto, Bechis si sente un usurpatore, un traditore, finchè scrivendo questo memoir capisce di essere una vittima. Anni dopo, rivedrà i suoi assassini, testimoniando contro i crimini dei militari, con il ricordo delle vittime sempre nell’animo. Dopo averne seminato brandelli nei suoi film, Bechis ha voluto raccontare per intero la sua vita di desaparecido- sopravvissuto, dove l’accento cade piuttosto sul secondo vocabolo, un romanzo lucido e "onesto" nell’analisi di se stesso, in cui la scrittura ha avuto un ruolo terapeutico per superare il trauma del rapimento e delle torture. quasi una espiazione per un destino evitato che gli ha lasciato sempre la sensazione di un debito verso chi non c’è più. Una sindrome sull’onda di quanto già sappiamo da Primo Levi sui sommersi e salvati. Un viaggio nella memoria di una generazione, quasi un romanzo di formazione, che ha sempre in primo piano la responsabilità del sopravvissuto. Oltre all’esigenza di narrare la propria esperienza individuale, Bechis fotografa e racconta il tessuto di una generazione che ha creduto di poter cambiare il mondo. L’autore ha evidenziato come, a molti anni dalla fine della dittatura, nonostante i processi e le condanne, ancora non si sia ottenuta una riconciliazione nella società argentina e che questa potrà avvenire solo dopo che i militari avranno parlato, ammettendo le loro responsabilità. "La memoria, se non serve nel presente a costruire un futuro, non serve a nessuno"
Rita Crisanti
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Un libro letto tutto d’un fiato nell’urgente attesa di una possibile risoluzione che fin dalle prime pagine mi ha risucchiata e fatta inabissare nel vissuto umano e politico dell’autore. Mi è piaciuto così tanto che non saprei dire cosa ho amato di più e perché vorrei esortare tutti a leggerlo. Se è lo sguardo lucido e accorato davanti all’esito di quelle rivoluzioni, in Argentina e in Italia, che avrebbero voluto cambiare il mondo alla radice e che invece erano precipitate in "in uno stesso buco nero" e a quei giovani "coraggiosi e idealisti" che morivano in entrambi gli emisferi anestetizzati e annichiliti gli uni dalle squadre dei militari in borghese gli altri dell’eroina in vena. O invece la voce di quell’esperienza di dolore angoscioso "che allarga uno squarcio dentro il petto" mescolato al senso di colpa "pesante più del piombo" per aver finalmente placato la fame di cibo e libertà, per essere un sopravvissuto mentre i compagni continuano a consumarsi in carcere, a sperimentare la picana e rischiare di perdere quotidianamente la dignità e la vita o scomparire senza lasciare traccia. O ancora il coraggio impavido e liberatorio del testimone che decide di raccontare tutto al mondo, anche la vergogna del proprio privilegio, in forme d’arte molteplici e accessibili a tutti per rendere giustizia e scongiurare che l’orrore si riproponga.
Paola Fasciani
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Non è un romanzo, è la storia vera raccontata in prima persona da chi ha vissuto sulla propria pelle il sequestro e la tortura corporale durante gli anni della dittatura in Argentina. Fatti sconvolgenti e toccanti raccontati senza pathos. Il coinvolgimento sentimentale dell’ autore non traspare se non verso la fine del testo. Anche per la scrittura, a mio avviso, Marco Bechis sceglie una terza via, cosi come per la testimonianza in tribunale contro i suoi torturatori: una posizione asettica, distante dai fatti, come se non fossero accaduti a lui direttamente. La scelta di non incrociare lo sguardo dei suoi aguzzini durante la deposizione conferma la sua intenzione di non essere sopraffatto dalle emozioni. Al libro manca appunto quel quid in più….è un autobiografia dove le emozioni dell’ autore sono velate, nascoste dietro la ragione , dietro ai propri pensieri, dietro ad avvenimenti raccontati come se fossero successi a qualcun altro.
Elvira Martelli
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Dura e schietta, una sorta di raccolta di appunti e ricordi priva di una trama precisa, con salti temporali improvvisi che sortiscono l’effetto di legarti ancora di più alla lettura. Nell’inizio, il racconto del sequestro subito ci trasmette in modo lucido e pulito il vissuto in condizioni estreme di tensione e sottomissione, parlando di tortura e di prevaricazione in modo del tutto naturale, al ritmo di una partita di ping pong. Il rientro in Italia rallenta il ritmo del racconto pur lasciandolo interessante e nella conclusione con il processo ai responsabili ritorna alle vicende Argentine. Ho sentito una sorta di “senso di colpa” del protagonista per non riuscire a dare quello che la storia gli chiedeva e per aver avuto una sorte diversa dai tanti che non avevano alle spalle una famiglia influente. Gran bel libro.
Luisa Carinci
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Mi ha colpito la lunga gestazione del libro che affronta temi già trattati dall’autore già regista di successo. In particolare ero molto sensibile al tema avendo in questi mesi, dopo anni di conoscenza, parlato con una donna della mia età della sua fuga adolescente dall’argentina e dell’orrore di quel periodo, delle morti della sua famiglia. Non avevamo mai affrontato questo argomento perché tanto doloroso per lei. Poi pochi giorni dopo è arrivato il libro di Bechis…..è stato un piaciere immergermi in quelle pagine….e apprezzare la sua testimonianza.
Annarita Frullini
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Pina De Felice
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Un libro intenso e appassionante; un racconto-testimonianza in cui la vicenda personale dell’autore apre le porte a contesti storici e a realtà internazionali complesse. Il 19 aprile 1977 ha inizio la sua esperienza drammatica di desaparecido nell’Argentina della dittatura militare ed è il punto di partenza anche del travaglio interiore di un “esule” alla ricerca dell’identità smarrita, di un militante sospeso fra la figura di “traditore” e quella di “eroe”. Al di là del valore storico, di documentario e di denuncia degli orrori di cui sono responsabili tutte le dittature, è questo percorso esistenziale l’aspetto più coinvolgente e commovente. Il rapimento rappresenta l’occasione per iniziare attraverso la scrittura una operazione terapeutica e catartica in cui Bechis riesce a sanare ferite profonde, a superare sensi di colpa, a definire confini, a sentirsi “vittima”, a trovare la sua “lingua”. Con una scrittura chiara, ritmo incalzante e continui salti temporali e spaziali, sapientemente governati, l’autore racconta al presente e in prima persona la sua vita, ma tutto il romanzo assume una valenza collettiva.
Maria Alba Simigliani
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Rosella Travaglini
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Una storia appassionante e avvincente, personale e nello stesso tempo collettiva, collocata in contesti generazionali e storico - politici particolarmente eccezionali, difficili, nella loro drammaticità. Il giovane Mario Bechis - “sovversivo riluttante” - a Buenos Aires, nell’aprile del 1977, appena ventenne, viene sequestrato e imprigionato nei sotterranei del tristemente famigerato Club Atletico, un carcere clandestino dove si concentrano le peggiori forme di costrizione e annientamento verso gli oppositori alla dittatura militare in Argentina. Marco, vissuto tra l’Italia e l’Argentina, in virtù delle conoscenze dei genitori, che faticosamente riescono ad ottenere la sua scarcerazione, riesce a venir fuori da quell’inferno, ma per molti compagni la sorte è stata ben diversa. Da sopravvissuto si sente, dunque, un usurpatore e solo attraverso un lungo percorso riesce ad emergere la consapevolezza di essere una vittima. Anche attraverso la testimonianza giudiziaria e con il testimoniare mediante l’arte, egli ha potuto districare l’intreccio dell’esperienza traumatica e tornare a vivere. Un libro veramente emozionante, una scrittura gradevole, una piacevolissima lettura.
Franca Pierdomenico
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Antonella Fantini
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Maria Liverani
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Giancarla Spanu
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Maria Modarelli
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Nat Mungari
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Marta Marcazzan
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Eugenia Mungari
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Mara Paladini
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Laura Pegorer
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Giacomo Zipoli
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Umberto Celli