< Madri di  Marisa Fasanella (Castelvecchi)

Qui di seguito le recensioni di Madri raccolte col torneo 'nar' (tutte le fasi)

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C’è un grandissimo sforzo di ricerca: ogni parola è messa lì con l’obbligo di evocarti immagini delle miserie della condizione umana. Il rischio è uno sconfinamento nel lirismo.

Dario Pedalino

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Storie di donne rinchiuse nei manicomi e trattate come oggetti. Storie di madri private dei figli e devastate nella loro femminilità. Storie di ragazze abbandonate ed emarginate. In questo romanzo Marisa Fasanella evidenzia, con una dirompente narrativa, un tema quanto mai attuale, in un momento storico in cui la famiglia si rivela il luogo più pericoloso del mondo.

Anna Maria Nuzzaci

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Le storie vengono da lontano. Quella di Marisa Fasanella è un’opera complessa che nasce dalla necessità, dall’urgenza di raccontare. Nei ringraziamenti l’autrice (Madre) si rivolge direttamente alla figlia (?) Giulia: “la memoria, amore mio, non lascerà al buio le donne che sono venute prima e quelle che verranno, se ne avrai cura”. La volontà di illuminare e un lavoro di attenzione.
È attraverso Lena, sua mimesi poetica, che l’autrice dà voce alle donne dimenticate del Sud. Un Sud che non si fa fatica a visualizzare come l’entroterra calabrese: “terra di sciagure, di terremoti e di frane, dove gli alberi sono una benedizione”. Un’aridità non morfologica, topografica, ma, piuttosto, sentimentale. Paesi chiusi dai monti, case arroccate, abbarbicate, vicoli stretti, dove “i venti si chiamano a raccolta e nelle notti d’inverno parlano ai comignoli di pietra sopra i tetti di coppi”.
La storia (Madre) di Lena, Penelope del plot, è legante del racconto corale, un intreccio contorno, al pari delle stesse vite narrate: “così è la vita, una matassa di lana, trovi il bandolo e inizi a dipanarla e non sai mai se riuscirai ad arrivare all’altro capo del filo”. Storie di vite cancellate, rimosse; storie zoppe di disperazione, case che diventano prigioni, “legami tenuti insieme da vite nate da amori sciolti o annodati ai rimorsi”. Storie di confino, posti “dove chiudono le donne che urlano per le strade, non si lavano e non si pettinano”. Sì, perché, a pensarci bene, in questi spazi confinati che pensiamo muti, in realtà, non c’è silenzio. Un romanzo rumoroso, polifonico in cui la matrice comune è il dolore. Un dolore che nasce dalla carne, dal sangue, dall’essere donna, che qui significa essere corpo, abitato dalla vita e dalla morte, troppo spesso abusato, un “corpo sporco, merce di scarto”.
"Madri", concetto poliedrico e concentrico legato alla terra (Madre), il mondo alchemico, primigenio, governato da poteri divinatori, occulti, femminili, riti scaramantici, la forza della luna e delle maree, le Magare.
Eppure, il vero lavoro di invenzione non riguarda la riscrittura del mito, intriso di un realismo magico così comune a tutti i Sud del mondo. La potenza generativa è soprattutto nella lingua (Madre) della Fasanella. Una scrittura corporea, materica uno stile paratattico dalla forza dirompente, capace di trasportare nella dimensione delle storie. È un movimento faticoso che richiede sforzo. Un impegno che è presupposto del potere creativo della letteratura.
Magico.

Riccardo Lanferdini

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Circolo dei lettori
di Catanzaro “Palomar”
coordinato da Umberto Mancino
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Storie appuntate sulla carta con l’inchiostro, per non dimenticarle, scritte da Lena…tenute insieme dalla sua di storia, di manicomio, di follia, di sofferenza che non suscita compassione, perché la follia è un cancro, ma non c’è compassione per i folli. Entriamo in un universo che ti toglie il fiato, ti scaglia addosso violenza e brutture, senza essere catartico, in cui persino la costruzione del linguaggio, i flash-back, la rete dei rapporti sono mimetici del disordine del tempo e dei sentimenti. Un clima ancestrale, tragico, in cui non manca la magia delle magare, delle piante, degli animali, che parlano, conoscono verità ignote all’uomo. Uno scontro primitivo tra uomini e donne, tra generazioni, in cui il manicomio e la morte chiudono il cerchio della sofferenza.

Lorenza Viapiana

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Lena scrive e conserva le storie in una borsa rossa che l’accompagna sempre e il racconto dei racconti ha la sua voce che diventa figlia, madre, donna con maternità negata. Magda, Piera, Laura, Almira e così via, Lena diventa ognuna di loro. Le storie si sviluppano in un paese del Sud tra vite ingarbugliate in cui elemento onirico, pregiudizio sociale, drammi familiari e pulsioni erotiche passano attraverso corpi di donne di ogni età e vivono in vicoli storti, in manicomi, in case che segretano, rinchiudono le loro voci, passioni e sofferenze, in un mondo fatto di abiti neri per la vedovanza e dove è una stranezza il colore chiaro dei capelli o usare abiti vivaci. Sono storie di matrimoni, di zitellaggio, di violenze che le donne custodiscono solo per sé. È un libro che lascia un segno profondo, fa riflettere e, pur rivolgendosi a un mondo che appare antico e lontano, mette a nudo le fragilità e le violenze contemporanee, ci fa riflettere sulle diversità e sul diverso sentire.

Francesca Ferraro

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Un anziano pescatore riceve la visita di una vecchia conoscenza e della sua gatta grigia con gli occhi azzurri, gatta che nella sua esistenza è andata in giro a raccogliere storie.
Le storie raccolte dalla gatta e che vengono narrate al pescatore sono storie di madri e figlie, storie di vita e storie di morte, storie di follia, storie di amore, storie di vita.
Un’atmosfera surreale e ancestrale avvolge le narrazioni che accompagnano il pescatore e le sue ospiti verso un nuovo giorno che inizia.
Una raccolta di racconti che ricordano Raymond Carver.

ELISA BENNI