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Scrittura scorrevole di piacevole lettura.
A tratti apparentemente caotico, spesso rappresentativo di una realtà quasi dimenticata.
Adatto ai piu’ giovani.
Lorena Petrucci
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Trama poco avvincente, lessico scorrevole
Guglielmo Guarina
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La scrittura ha un suo stile, per quanto adolescenziale. Nel complesso lo considero un romanzo di formazione che sicuramente non avrei scelto di leggere ma che vince a mani basse.
Raffaella Di Pasquale
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Storia di un amore sbocciato tra i banchi di scuola, puro e controverso come sa esserlo a quell’età, che (letteralmente) trema e crolla a partire da quel maledetto 6 Aprile 2009 a L’Aquila. L’autore riesce a far immedesimare il lettore nel brivido dell’amore dei due giovani, nell’energia delle lotte studentesche, nel terrore e nella distruzione del terremoto (che segna un punto di svolta nelle loro vite e nella loro maturità), nella frustrazione per le istituzioni assenti. Stile di scrittura scorrevole, piacevole, che spinge il lettore a sfogliare una pagina dopo l’altra.
Mariarosaria Campitelli
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Scrittura artificiosa, volutamente pomposa, a tratti fastidiosa. Storia poco più che adolescenziale. Strana la pubblicazione con una casa editrice in ascesa come La Nave di Teseo.
Stefania Coco Scalisi
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Nell’ultimo lavoro di Eshkol Nevo, ‘Le vie dell’Eden’, ad un certo punto
si legge: “nel primo romanzo gli autori raccontano la storia più forte
che è accaduta in famiglia, per cui la vera prova per uno scrittore è il
secondo libro”.
‘Però l’estate non è tutto’, ‘Piperita’, due esordi, due autori giovanissimi (rispettivamente classe ‘91 e ‘96).
Leggendo
entrambi viene spontaneo rispondere alla domanda grossolana che molto
spesso si sente indirizzare agli scrittori, ovvero quanto si
autobiografico ci sia nelle loro storie.
Nel caso di Valentini, in
particolare, la curiosità si acuisce laddove l’autore, per mano del
protagonista, si abbandona in una chiara dichiarazione di intenti:
‘scrivere un romanzo come esercizio di espiazione’. Eppure, “il
pentimento esige attesa e penitenza: macerare nel rimorso e fustigarsi,
prima di implorare l’assoluzione”. Un tempo che pare non ci sia stato.
Espiazione, dunque, ma non solo; “scrivere per sgravarmi la coscienza:
una volta che non sarà più solo mia, questa storia mia non lo sarà per
niente. Fossilizzato sulla carta questo passato perderà d’incanto ogni
consistenza diverrà insondabile dallo scandaglio della memoria. Questo è
l’auspicio: scrivere per liquidare e andare oltre”. Un espediente ben
noto: una volta pubblicato un romanzo finisce per essere la storia
autoriale, del singolo, per diventare oggetto comunitario, di chiunque
lo legga. In quest’esercizio, in questo passaggio di consegna, diventa
fondamentale rispettare un tacito accordo di ‘autenticità’, anche
questo, concetto abusato. Valentini, tuttavia, non sembra tener fede al
patto. Il romanzo manca di veridicità, in primis, dal punto di vista
proprio narrativo. La storia d’amore di Vittorio e Silvia, ‘gonfi
d’ormoni e di afflati rivoluzionari’, ricalca pedissequamente il cliché
dell’amore adolescenziale, idilliaco, privo di spessore. “Volli imporre
alla realtà la forma dello stereotipo e alla fine non capii più se fossi
innamorato dell’una o dell’altro. Mi persi in una specie di gioco di
specchi tra ciò che era e ciò che speravo fosse”. Ma non solo, la
manchevolezza maggiore è proprio della scrittura, nel continuo
alternarsi di due registri tra loro antitetici. Da un lato una lingua
accademica, ridondante, irta di manierismi; dall’altro il parlato
colloquiale, volgare nel senso più puro del termine. E, paradossalmente
la scelta dialettale, che dovrebbe conferire genuinità e freschezza al
testo (si pensi all’uso superbo che ne fa Rapino nel suo ‘Vita, morte e
miracoli di Bonfiglio Liborio’) nel contrasto con l’artificio
linguistico, che poco si addice allo spirito adolescenziale, finisce per
produrre l’effetto contrario, un’incongruenza, una stonatura non solo
idiomatica. Al contrario, irragionevole a dirsi, la penna di Mila
risulta molto più matura. Senza lasciarsi trascinare da inutili
formalità o velleità letterarie, il giovane autore capitolino adotta una
lingua asciutta, misurata, pulita, perfettamente in linea con la
caratterizzazione dei personaggi. A voler essere pedanti, la storia, in
questo caso, è fin troppo ‘autentica’, volendone così rimarcare la
natura ordinaria, persino banale che, alla lunga, finisce per lasciare
un retrogusto scialbo, una piattezza soprattutto nel ritmo della
narrazione.
Eppure, ciò che colpisce di più nella disamina delle due
opere sono le eccezionali analogie. Entrambe, difatti, sono pervase da
un comune senso del tragico. La lettura, nei due casi, è sempre
accompagnata da una sensazione angosciosa, l’incombere di qualcosa di
inquietante. Tutto ruota attorno ad una mancanza cui corrisponde un
movimento tellurico e viceversa. In un paradossale chiasmo: laddove
l’assenza è dichiarata, il sisma è sommesso (Piperita); altresì quando
l’assenza è tacita, il terremoto è reso manifesto (Però l’estate non è
tutto).
Due esordi, due romanzi di formazione. Crescere in fondo è
misurarsi con il dolore, non il proprio ma, piuttosto, la sofferenza
dell’Altro.
Si legge in Piperita: “se si sapesse, mentre si cresce,
cosa comporta la solitudine - se ti avvisassero che è morte e disabilità
affettiva - tutti ne avrebbero un po’ meno voglia e un po’ più paura.
Per risparmiarmi un nuovo abbandono ero rimasto solo, e avevo creduto di
conoscere il dolore in virtù di quel tanto che avevo provato. Non mi
ero reso conto di fare con Greta lo stesso che a casa era stato fatto
con me - e pensavo che i responsabili fossero sempre e a prescindere gli
altri, e che il dolore che era toccato agli altri non fosse abbastanza
per comprendere il mio”.
E, forse, anche in questo caso, Mila nel
confronto risulta più convincente, meno compiacimento e un messaggio di
speranza che, specie in questi tempi bui, non guasta… ”Devi smetterla di
tormentarti per chi se ne va, concentrati su chi resta”.
Riccardo Lanferdini