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Ballata per le nostre anime di Mauro Garofalo
Mondadori

 

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Circolo dei lettori del torneo letterario di Robinson
di Milano 4 “Club delle Argonne”
coordinato da Fabio Mantegazza
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Due gialli, due gialli storici, due gialli storici ambientati nel passato di una Lombardia che non c’è ovviamente più ma che lancia ancora qualche riflesso sull’oggi.

Ho letto questi testi in sequenza ravvicinata, ne scrivo in tandem per due ragioni. La prima è che mi è richiesto di indicare quale dei due vince il confronto, la seconda sta nella difficoltà incontrata nel definire quale dei due sarebbe finito giù dalla torre.

Dal contesto della provincia lombarda, dalle sue zone montuose e quindi più defilate rispetto alla diffusa prospettiva urbanocentrica, emergono con decisione tratti del nostro passato recente: sono le origini del presente, mai sufficientemente raccontate alle nuove generazioni (salvo poi stupirsi se queste ci appaiono (si sentono?) senza radici). Le storie mi sembrano ben costruite, delineate a tutto tondo con le loro sfumature. La differenza per me più significativa sta nei toni del racconto, nel linguaggio che veicola i contenuti di cui è parte: la Ballata tenta un’operazione ambiziosa, immergendosi con convinzione nel periodo storico in cui si svolge la storia. Ma proprio questo mi è parso il suo limite: la scelta lessicale, la costruzione sintattica di una lingua italiana coeva agli eventi è certamente un’impresa complessa, che evidenzia la meticolosa ricerca e la non comune abilità dell’autore, ma ha appesantito la mia lettura e l’ha resa faticosa. Tanto razionalmente apprezzabile, quanto respingente - per me - sul piano dell’empatia lettore-storia-autore.

E quindi giù dalla torre. A tutto vantaggio della compagna Sangalli e della sua doppia morte.

Gabriella Zipoli

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Ho goduto di queste pagine dalla prima all’ultima. Partendo da un fatto di cronaca Garofalo costruisce una storia che tiene agganciati alle pagine. Apprezzabile la struttura, che alterna capitoli narrativi più lunghi a brevi monologhi in prima persona che danno voce alle sette vittime degli omicidi per mano di Simone Pianetti, figura realmente esistita a cavallo tra Ottocento e Novecento. La sua storia è narrata con dovizia di particolari. Seguiamo con interesse il percorso di vita del protagonista, dall’infanzia alla giovinezza all’età matura, comprendiamo le motivazioni che lo hanno spinto ad allontanarsi da una vita di fatica e sudore nei campi, via da un padre padrone e dalla società rurale della Bergamasca, verso la speranza in una vita più decorosa e ambiziosa in quella terra promessa al di là dell’oceano. Il tentativo di farcela da solo, contro la malavita, che allunga i tentacoli e cerca di stritolarti. È una storia di ritorno, di riscatto e di vendetta, di lotta per farsi valere e riconoscere come padroni del proprio destino. Un destino che però si rivolta e scompiglia le carte, perché la mentalità ottusa e provinciale è dura da sconfiggere, l’invidia e le maldicenze sono tanto forti che possono cambiare il corso di una vita. Allora cosa puoi fare quando tutto ti si ritorce contro? Ti fai giustizia da solo e ti prendi la tua rivincita, a costo di sparire per sempre.

Ho apprezzato in particolare la struttura a incastri dei brani narrativi, con uno stile che intreccia la terza persona al passato a paragrafi in seconda persona e al presente che rispecchiano i pensieri di Simù, la cui caratterizzazione è ben riuscita anche dal punto di vista psicologico. Immagini descrittive di una forza lirica che risaltano come pennellate. Indimenticabile il capitolo in cui dà voce alla città di New York. Per me è promosso

Cristina Casanova

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La scrittura si avvale di una sintassi contorta con soggetti e verbi talora nebulosi, il lessico è ricercato ed a volte dialettale e dato per scontato; è stata una lettura un po’difficoltosa.

La scrittura avviene su due piani, uno è quello del racconto delle vicende che avvengono alla fine dell’Ottocento in Val Brembana e negli Stati Uniti e l’altro è quello del racconto delle anime uccise che descrivono la propria verità.

La prosa, a onor del vero, appare a tratti poetica; la descrizione, sia dell’ambiente, sia dell’animo montanaro così rude, è precisa ed accurata ed anche l’analisi del periodo storico attraversato è puntuale e ben delineata.

Il ritmo è lento e le descrizioni sono evocative sia degli ambienti, sia dei personaggi.

Il romanzo non lo avrei annoverato tra i gialli, lo definirei piuttosto un romanzo storico che racconta la difficoltà del passaggio dalle certezze dell’ottocento alle novità del novecento.

Anna Santoro

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Ispirato a fatti veri, narra la storia di Simone Pianetti, ancor oggi leggenda della Val Brembana. Da chiarire subito: non è un giallo. Buone le capacità descrittive, le ambientazioni, ma per costruire un giallo ci vuole ben altro. Romanzo compiaciuto, ambizioso, ma non cattura perché manca la capacità di scavare dentro i personaggi e nei loro pensieri, inoltre non c’è suspense. Libro a cui non ci si affeziona e che non lascia malinconia quando lo si è terminato, anzi, si può solo tirare un sospiro di sollievo.

Cristiana Vianelli

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Mauro Garofalo, attingendo al prezioso lavoro di ricerca condotto dal pronipote di Simone Pianetti in “Cronaca di una vendetta”, racconta in modo del tutto personale la vicenda di colui che ancora oggi viene ricordato come “il vendicatore della Val Brembana”.

Pare che nelle valli bergamasche, di fronte a soprusi e ingiustizie, si invochi ancora oggi il nome di Simone Pianetti: uomo onesto, grande lavoratore, padre di otto figli, che la mattina del 13 luglio 1914 imbracciò il fucile ed uccise sette persone. Sette persone, tra cui il medico, il giudice, il prete del paese che, secondo lui, per invidia, ignoranza, incapacità di cogliere le trasformazioni della società, avevano contribuito al fallimento delle sue iniziative economiche.

Datosi alla macchia nei boschi che ben conosceva e dove, sin da piccolo, correva a rifugiarsi nei momenti di difficoltà, ancora oggi risulta ricercato.

È interessante seguire la vicenda di un uomo, all’interno di una piccola comunità, che ha conosciuto la fatica, il lavoro e l’isolamento prima come emigrato in America e poi come “straniero”, “diverso” nel proprio paese.

Decisamente particolare e forse troppo ambizioso lo stile con cui la vicenda viene narrata, alternando verismo e sperimentalismo, prosa, lirica e tragedia. La narrazione risulta così frantumata, in un continuo alternarsi di punti di vista in cui i vivi, i morti, i loro fantasmi e la natura stessa si alternano e si sovrappongono in un racconto corale.

In questo modo la lettura, che potrebbe essere anche avvincente, diventa invece impegnativa, faticosa e poco gratificante.

Enrica Lieta

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