Il
tè nel deserto di Paul Bowles
Feltrinelli
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Circolo dei lettori del torneo letterario di Robinson
di Amman “Lettrici italiane in Giordania”
coordinato da Elisa Gironi
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Circolo dei lettori del torneo letterario di Robinson
di Cassina De’ Pecchi “Cassinachelegge”
coordinato da Maddalena Dellacasa
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Siamo alla fine della seconda guerra mondiale. Due
americani, Porter Moresby e sua moglie Kit, lasciano New York per intraprendere
un lungo viaggio in Nord Africa, insieme all’amico Tunner.
Porter e Kit vivono un rapporto molto tiepido, cordiale ma distaccato. Sono
affezionati l’uno all’altra più come una vecchia coppia stanca che come due
coniugi innamorati. Nonostante questo loro strano rapporto, cercano di
ritrovarsi, anche se non mancano tradimenti e dialoghi a volte inconcludenti.
Il loro viaggio terminerà tragicamente.
Lo sfondo è un paese molto distante per cultura e modi di vita, che i nostri
viaggiatori spesso sembrano avvicinare senza comprendere.
Lo stile è lento ma molto accurato e, sebbene non abbia mai visto il film di
Bertolucci tratto da questo romanzo, ho avuto l’impressione per tutto il corso
della mia lettura di vedere i personaggi, di vivere con loro questo viaggio in
prima persona.
Molto ben scritto, ho dato però la mia preferenza all’altro romanzo in gara,
Giungla d’asfalto.
Maddalena Dellacasa
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Un libro senza capo né coda, noioso e pieno di lungaggini che fanno passare la voglia di leggerlo.
Decisamente vince la sfida “Giungla d’asfalto”.
Valeria Bruni
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“Il te nel deserto”
racconta la storia di una coppia e di un amico che fanno un viaggio nelle
zone vicino al deserto del Sahara.
Sono 3 persone benestanti che non hanno quindi problemi di soldi e che vogliono
provare l’ebbrezza di un viaggio nel deserto.
All’inizio la coppia viaggia svogliatamente con l’ amico (Tunner) il quale è
innamorato di Kid (la moglie) e cerca in ogni modo di portarla via al suo amico
Port.
La coppia non è molto affiatata ma comunque legata da una normalità di coppia.
Durante le tappe del viaggio Port (il marito) va un po’ per conto suo ad
esplorare le città visitate e durante queste esplorazioni viene ospitato da
indigeni del posto che gli fanno bere un sacco di tè e mangiare le loro
pietanze.
Da queste uscite, lui ritorna a casa con una febbre che nessuno riesce a capire
e muore.
La moglie Kit ne rimane particolarmente sconvolta e scappa. Si ritrova nel
deserto dove si aggrega ad una tribù di nomadi.
Qui subisce i vari maltrattamenti soprattutto perché è una donna. Subisce così
tante violenze da dover poi essere sottomessa e arriva a sposare il suo
persecutore che aveva già altre tre mogli che inveiscono contro di lei.
in un momento di lucidità riesce a scappare e a trovare finalmente un aiuto e
far ritorno a casa.
È talmente sconvolta da tutto quello che le è capitato che, tornata in patria
scappa e vaga per il quartiere di Algeri.
Sono stati due libri molto belli anche se quello che mi è piaciuto di più è
stato “Il te nel deserto” che ho trovato più coinvolgente tanto che mi sembrava
vivere le stesse esperienze dei protagonisti.
Miria Piva
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Ritengo l’opera un paradigma della situazione dell’uomo postmoderno.
Pur essendo stato scritto dopo la seconda guerra mondiale quando il disastro della distruttività della guerra ha portato i popoli a ricostruire, a essere forti e creativi, il protagonista sono invece in fuga.
Ricchi, belli intelligenti non sanno che fare dei loro talenti, lei non scrive più, lui non compone più musica, scelgono di muoversi in un mondo povero e lontanissimo dalla loro cultura, forse alla ricerca di uno shock salvifico che non avverrà. Il peso che si portano dentro è espresso in modo simbolico dai bagagli che si portano appresso, un numero esagerato di valigie e bauli che ovviamente si faranno portare per poche monete dai portatori indigeni, bagagli che però si perdono nel corso della narrazione fino a diventare l’unica modesta valigetta che Kit sorregge nel suo errabondare solitario dopo la morte di Port e che negli ultimi capitoli perde, a lei rimangono solo soldi nemmeno più utili perché non accettati al mercato in cui Kit si ferma dopo l’ultima fuga.
Kit e Port non sono salvati né dall’amore né dalla natura che sanno però osservare e vivere; nemmeno quel cielo così denso e azzurro che sembra un ombrello di protezione, né l’infinito deserto portano sollievo alla loro inquietudine.
L’anima si perde, non sa percorrere al suo interno i chilometri che invece si percorrono all’esterno.
E’ un grido disperato che lascia intravedere le tematiche che saranno proprie del ‘900 e dell’inizio del secondo millennio e che ne decretano cosi l’attualità del testo.
(Forse non più dopo il covid con la conseguente crisi sanitaria-sociale -economica; cosa sarà del dopo coronavirus è tutt’ora molto difficile da prevedere.)
Il senso della morte e la fatica del vivere sono onnipresenti nel romanzo, come ad esempio:
“Prima dei vent’anni, voglio dire, pensavo che la vita fosse qualcosa che andasse via via acquistando slancio. Anno per anno sarebbe diventata più ricca e più profonda. Uno imparava sempre più, diveniva via via più saggio, aveva maggiori capacità di introspezione, si addentrava sempre più nella verità...”. Esitò.
Port rise bruscamente.
“E ora sai che non è così. Vero? È piuttosto come fumare una sigaretta. Le prime boccate hanno un sapore meraviglioso, e non pensi nemmeno che possa mai esaurirsi. Poi cominci a darlo per scontato. D’improvviso ti rendi conto che si è consumata quasi tutta, e proprio allora ti accorgi che in fondo sa di amaro.”
I personaggi secondari, Tunner, i Line incarnano, anche se in modo meno nobile e filosofico, la stessa incapacità di cogliere il senso della vita.
Mi sembra rimangano aperte tutte le domande fondamentali di ogni uomo: perché siamo vivi, dove andiamo, chi siamo, qual è il nostro posto nel mondo, perché la morte, quale senso dare alla vita.
L’essere viaggiatori compulsivi non aiuta a dare risposte.
Lo stile linguistico, almeno nella traduzione italiana, appare coerente con la storia, è un linguaggio attuale, ricco a volte sincopato che ci regala immagini di un’Africa bella e terribile e di una umanità incerta, disperata, opportunista, prepotente e fragile.
Mi sembra potente l’immagine finale: Kit che rifiuta il suo mondo occidentale che sta per riaccoglierla e si avventura di nuovo nelle strade di Algeri, sola, senza nemmeno più l’ultima valigetta. Va verso la libertà e il riconoscimento di se stessa o verso l’annientamento totale? Chissà.
Consiglio la lettura? Sì, per lettori e lettrici che sanno armarsi di attenzione e pazienza perché le parole da leggere sono molte e gli eventi che succedono pochissimi...
Francesca Bellettini