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L’ultimo dei Mohicani di James Fenimore Cooper

DeAgostini

 

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Circolo dei lettori del torneo letterario di Robinson

di Milano 4 “Club delle Argonne”

coordinato da Fabio Mantegazza

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“L’ultimo dei mohicani” è un romanzo per ragazzi e lì, in questa dimensione quasi fanciullesca, alla Rin Tin Tin io mi sono immedesimata e in parte riconosciuta, tanto che mi sembrava di sapere come sarebbe andata a finire...e invece il finale è stato davvero a sorpresa! Anche in questo libro c’è l’idea che gli europei siano “razza eletta”, ma forse non del tutto, visto un vago senso di appartenenza americana da parte dell’autore che forse ha in sé il solito mito del buon selvaggio... perché gli piacciono gli indiani nella loro dimensione selvaggia, ma anche culturale e forse non li vorrebbe “addomesticati” dagli europei, soprattutto se questi europei sono francesi. Sicuramente egli comprende e dichiara tra le righe che gli indiani d’America sono stati guastati dall’uomo bianco con armi e perfidia: l’ultimo dei Mohicani, lo splendido Uncas è il “puro folle” della saga americana degli indigeni, mi verrebbe da pensare. Sì, d’accordo, la storia sembra il copione per un film tra nordisti, sudisti e pellirosse: i nordisti sarebbero i francesi, i sudisti gli inglesi e tutto il resto i nativi americani, ciascuno con le sue caratteristiche tribali che li fanno un unico popolo usurpato che tenterà nel particolare di sopravvivere, cercando di dominare sugli altri dominati. Ma non c’è posto per i dominati a fianco dei dominatori europei! Persino Cora non è europea! È contesa perché assomiglia alle indigene e i due indiani (Uncas e l’alter ego indigeno, brutto e cattivo) la vorrebbero trattenere con loro perché in qualche modo percepiscono la sua origine amerindia.

E così finirà...ma con la morte, secondo i copioni tipici delle tragedie.

L’ho letto in un soffio, compulsivamente, immaginandomi in mezzo alle grandi foreste del Nord America, tra i fiumi vorticosi, i kayak, gli orsi di quel continente. Volevo arrivare alla meta anch’io, sperando che Uncas non fosse tradito dal suo destino di puro selvaggio. Poi il racconto è finito e così anche il suo mito di un mondo lontano ed irrimediabilmente perduto.

Lorena Migliaccio

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Lealtà, coraggio, dignità, riscatto, amicizia… in questo libro ci sono tanti valori forse romantici ma sempre validi. Un intenso romanzo d’avventura ambientato in paesaggi che il bel film con Daniel Day-Lewis ci ha fatto conoscere.

Piera Comparin

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È un classico libro di avventura, che più classico non si può.

Per ambientazione, in territori sconosciuti e inesplorati, per personaggi e interpreti: tribù di indiani presentati come selvaggi; altri invece conquistati alla complicità coi bianchi.

È chiaro fin dall’inizio chi sono i nostri e chi sono i nemici.

I colpi di scena si avvicendano con continuità. La scrittura è fluida e veloce.

L’impianto narrativo è semplice ed essenziale. Un classico quindi, ma più adatto alla lettura dei ragazzi che a quella di un pubblico adulto.

Io avevo letto questo libro quando avevo 12 anni e mi ricordo che facevo fatica a smettere.

Ora lo trovo di una semplicità a volte imbarazzante

Fabio Mantegazza

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Difficile leggere in modo ingenuo il classico di Cooper. Mentre si ritrovano i temi cardine della letteratura americana – la frontiera, il richiamo della fuga into the wild, l’amicizia virile, la lotta – si è costretti a pensare alla centralità del punto di vista coloniale, in questo romanzo pur aperto all’amicizia e alla fusione interculturali e interrazziali. L’ultimo dei Mohicani del titolo – il vecchio capo che perde il figlio, eroicamente caduto nel difendere non la propria gente, ma gli inglesi dai francesi – non è il protagonista del romanzo; lo è piuttosto il cacciatore bianco, prototipo dell’eroe americano solitario e leale, sospeso fra natura e civiltà. Amicizia e amore sono possibili fra pionieri e “indiani”, racconta Cooper. Difficile abbandonarsi alla sua immaginazione. La prosa, non magistrale, non aiuta.

Erica Golo

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Romanzo di avventura che spazia fra temi attualissimi, come la politica, la solidarietà fra uomini di diverse razze, il tradimento.

I mohicani sono maestri di civiltà, capaci all’ascolto e rispettosi dell’altrui opinione. Ho avuto la fortuna di leggerlo nella grandiosa traduzione di Fernanda Pivano, che è stata ancora una volta capace di lasciarci immergere nella lettura attraverso affascinanti descrizioni paesaggistiche e dialoghi riportati in uno stile elegante e mai arcaico.

Purtroppo devo ammettere che è una delle poche volte in cui ho preferito il film (quello di Michael Mann) al libro.

Cristiana Vianelli

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Innovativo per l’epoca poiché presenta gli indiani non come un gruppo indifferenziato di selvaggi ed incivili di fronte alla civiltà dell’uomo bianco, ma li divide in “buoni” e “cattivi” esplicitamente denunciando le responsabilità degli europei nella corruzione degli indigeni. Gli usi e costumi indiani qui non sono visti in maniera negativa per la loro diversità, ma risalta l’intelligenza e l’onestà dei Mohicani mentre il cacciatore bianco Occhio di Falco ha il ruolo di mediatore, spiegandone i costumi per noi meno accettabili.

Risulta tuttavia irrimediabilmente datato nel racconto, che si risolve in un succedersi di avvenienti drammatici che si aggiungono gli uni agli altri su un esile filo narrativo.

Licia Bettrelli

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Un altro classico della letteratura americana che vede al centro il conflitto tra Francesi e Inglesi nelle colonie del Nord America del XVIII Secolo.

Centrale il ruolo delle diverse tribù indiane che entrano in gioco, alleandosi con l’una o l’altra potenza. Inevitabile il contrasto tra due mondi, due culture che si gioca in un susseguirsi di fughe, inseguimenti, alleanze e tradimenti che a lungo andare diventano ripetitivi e un po’ scontati. Fa da sfondo un ambiente selvaggio ed incontaminato che accentua il contrasto tra natura e cultura, istinto e ragione.

Forse troppe volte abbiamo visto questo scontro rappresentato in numerosi film, per farci sorprendere ancora dal romanzo che, però, ha certo il merito di aver inaugurato un filone e un genere, non solo letterari, sul tema della “frontiera”.

Enrica Lietta

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Natura selvaggia, scene d’azione concitate, un buon ritmo, sentimenti e forti passioni, buoni e cattivi, tutti gli stereotipi di quella che sarà l’epopea del West sembrano avere origine in questo romanzo. Una bella storia di inizio secolo, oggi direi per ragazzi, che attribuisce un giusto riconoscimento al mondo dei pellerossa, una civiltà con radicati valori distrutta dall’avanzata degli europei, dei quali comunque si finisce per giustificare la vittoria. È soprattutto questo scontro che mette a fuoco Cooper, tralasciando quel senso di vuoto, di sospensione, di lontananza che invece caratterizza il romanzo western contemporaneo. Nell’Ultimo dei Mohicani la frontiera è rappresentata dal confronto con un altro da sé, nel romanzo contemporaneo soprattutto da quello con se stesso.

Impossibile ogni raffronto con il romanzo di Hawthorne, per la diversità sia dell’epoca sia della statura degli autori.

Rita Pugliese

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Il romanzo è fondamentalmente scorrevole nonostante la lentezza narrativa e la prevalenza della descrizione sulla narrazione. Non può essere considerato semplicemente un libro di avventura per ragazzi per via delle numerose implicazioni sociali, religiose e politiche che sottendono il romanzo. J. F. Cooper non demonizza le tribù indigene, non definisce selvaggia la loro cultura, tanto che Occhio di Falco, cacciatore bianco che ha ripudiato la civiltà dei bianchi e vive in perfetta armonia con la natura, ha scelto di condividere i costumi e i valori degli indiani.

Paola Fornaciari

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Romanzo storico di grande potenza, anche se spesso trattato come romanzo di avventura, soprattutto per le riduzioni cinematografiche.

Risente forse un po’ troppo del tempo (pubblicato quasi due secoli fa!) sia per le minuziose descrizioni, sia per le caratterizzazioni decisamente orientate al maschilismo delle terre di frontiera.

Viene tratteggiato l’archetipo dell’eroe americano: un uomo che istintivamente evade dalle restrizioni della vita civile per cercare un rapporto con la natura, affine, nella sua ricerca di autenticità, agli indiani, siano essi fratelli o nemici; un uomo che volta le spalle alla società dei bianchi e che mantiene solida e intatta la sua integrità.

Nel complesso però un testo un po’ troppo datato e di letture o rilettura, non facilissima. Forse da ragazzo avevo letto una riduzione più adatta alla mia generazione di allora, bei tempi quelli!

Raffaele Biavasco

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Romanzo arcinoto è ambientato a metà dell’800 a Salem, luogo simbolo del puritanesimo americano.

Il linguaggio è farraginoso riflette le elucubrazioni dell’autore sull’arte della scrittura. Vi sono rimandi a scrittori e pensatori di riferimento soprattutto nella prima parte intitolata La Dogana in cui, con modestia apparente e giustificazione dello scrivere, con sottile ironia si introduce al romanzo vero e proprio simulando la scoperta accidentale di un diario.

Nella lettera scarlatta i personaggi sono descritti fin nelle più intime percezioni di sé ed intenzioni di pensiero, è uno dei primi romanzi in cui si scava profondamente nell’animo umano mostrando i combattimenti tra anima e cuore, coscienza e responsabilità di ognuno di essi.

Anna Santoro

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Trovo che, quasi all’opposto che ne La lettera scarlatta, il peso del tempo sovrasti in questo caso il piacere della lettura per quasi tutta la durata.

Troppo lontani da me la situazione, la scrittura, i personaggi, la struttura, perfino la sensibilità del racconto per poter prendere lontanamente in considerazione la possibilità di dare a questo romanzo la preferenza tra questi due classici americani.

Marco Brutti

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Un classico dell’avventura pubblicato per la prima volta nel 1826, oggi famoso anche per il film che ne è stato tratto.

Ambientato nei territori americani del Nord degli Stati Uniti, alla metà del Settecento, il romanzo ha come sfondo le battaglie tra Francesi e Inglesi in territorio indiano, aiutati rispettivamente dagli Uroni e dai Mohicani. Il filo della storia è costituito dalle vicende di due sorellastre, Cora e Alice, le due giovani figlie di un colonnello inglese e del gruppo di valorosi che le soccorre (Duncan, l’ufficiale inglese innamorato di Alice, il cacciatore bianco Natty Bumppo, soprannominato Occhio di Falco -in seguito chiamato La Longue Carabine – l’ultimo dei mohicani il valoroso e intrepido Uncas, e suo padre Chingachgook). L’infido nemico delle due ragazze è Magua, un capo urone alleato coi francesi.

Un susseguirsi incalzante di fughe e catture costella la trama, fino al tragico epilogo.

Un romanzo incalzante, ancora affascinante per un giovane lettore, forse meno per un adulto.

Maria Zioni

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Dunque questa volta al posto di due recensioni farò solo un’unica, breve relazione. I testi americani proposti infatti sono indubbiamente dei classici, quindi già pluri-recensiti (e in modo molto più autorevole di quanto potrei fare io).

Inizio dicendo che, pur conoscendo i titoli, sono libri che non avevo ancora letto. E quindi grazie Robinson per avermi offerto tale occasione. Devo anche aggiungere che negli ultimi vent’anni ho orientato le mie letture su autori contemporanei: da giovane invece ho iniziato – classicamente direi!- proprio con i classici. Ho provato interesse e piacere immergendomi sia in L’ultimo dei mohicani sia in La lettera scarlatta: le tematiche affrontate superano brillantemente i 170 anni abbondanti che ci separano dal momento della composizione dei testi. E questo non fa che confermare la loro appartenenza alla categoria degli intramontabili. Le descrizioni degli ambienti (umani e naturali), le caratterizzazioni dei personaggi, le considerazioni sui contesti sociali delle due vicende hanno prodotto in me l’effetto di una strana macchina del tempo: la distinzione tra passato (il tempo della scrittura dei romanzi) e presente (il tempo della mia lettura) si è spesso affievolita fino a scomparire. Ma, ed è un grande “ma”, proprio questa distinzione si è fatta sentire ruvidamente in moltissime pagine del romanzo di Hawthorne: la traduzione di Bonsanti mi è sembrata troppo datata, al punto da ostacolare non poco il piacere della lettura. Ed è questa la motivazione del mio verdetto, indiscutibilmente a favore dell’Ultimo dei mohicani: superata (dai lontani anni in cui studiavo al liceo classico) la presunta distinzione tra forma e contenuto, devo percepire una solida armonia tra caratterizzazione dei personaggi e del contesto storico e sociale,  struttura narrativa e registro linguistico.

La lettura dei due romanzi in lingua originale avrebbe suscitato in me reazioni diverse? Probabile, ma così non è stato.

Gabriella Zipoli

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La guerra anglo-francese per il dominio sui territori del Nord America e le lotte tra la tribù originarie del luogo sono da sfondo in questo romanzo.

Scritto nella metà ottocento, ma ambientato un centinaio di anni prima, è a ben diritto annoverato tra i romanzi fondatori della letteratura americana, ma forse anche dell’America stessa. Sulle lotte tra le tribù dei nativi americani si è combattuto anche il conflitto anglo-francese per il dominio di quei vasti territori.

Il racconto è veloce, come veloci sono le battaglie combattute, ma tra le righe non può passare inosservato una sorta di mea culpa verso i primi pionieri che hanno di fatto considerato “incivili” le popolazioni native delle quali non conoscevano usi e costumi, condannandole allo sterminio.

Che la vittoria andasse allo schieramento inglese e ai suoi alleati era indubbia: un finale un po’ troppo scontato e decisamente “americano” che nulla toglie, in verità, alla bellezza del libro.

Il valore degli uomini come tali e come guerrieri in battaglia è attribuito ai comandanti di entrambi gli schieramenti: Chinghanchgook, Uncas, il generale Munro, “Lungo Fucile”, ma anche il cattivo Magua. Oltre a questi però vi sono numerosi altri uomini valorosi in grado di mettere la propria vita al servizio dei propri ideali e dei propri superiori utilizzando gli strumenti in possesso: l’abilità nella strategia militare, la forza fisica, l’arte e il fascino.

Anche i capi delle tribù native sono celebrati al pari dei comandanti inglesi: tradizioni, usi e costumi e valore civile – oltre che militare – sono qui raccontati con la solennità che gli è dovuta. E anche, forse, con un po’ di nostalgia verso un mondo più genuino e vicino alla natura che è stato violato e che si è perso nel tempo per lasciare il posto al più vile denaro e alle effimere conquiste del mondo europeo.

Negli anni della mia gioventù questo libro era consigliato come lettura per adolescenti e forse allora lo avevo anche letto, ma certamente non valorizzato come può essere fatto in età più matura.

Alessandra Chiappa

 

 

 

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Circolo dei lettori del torneo letterario di Robinson

di Roma “Gli antichi lettori”

coordinato da Franca Simi

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Purtroppo non sono arrivate recensioni per questo libro

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