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Polvere di ferro di Rebecca Harding Davies
Donzelli

 

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Circolo dei lettori del torneo letterario di Robinson
di Catania 3 “I Lettori del Galilei”
coordinato da Ida Pontillo e Gabriella Chisari
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Rebecca Harding Davis ambienta le vicende nel 1861 quando a Wheeling, nello stato del West Virginia, stava per scoppiare la guerra civile. Il protagonista del primo racconto “Vita nelle ferriere” è Hugh Wolfe, un operaio stremato dalla fatica che ruba dalla fabbrica gli scarti della lavorazione del ferro per realizzare un’opera d’arte molto particolare: una donna rovinata dalla fatica con le mani che sembrano afferrare il vuoto, e la bocca spalancata nell’intento di gridare. A raccontare la storia è una donna, reclusa in casa, che riconosce nella scultura, e nell’operaio che l’ha creata, oltre alla testimonianza di una pessima condizione operaia, anche la metafora dell’esclusione femminile. Le fornaci delle fabbriche, con il fuoco e il fumo ricordano l’inferno di Dante. Il tema dell’esclusione femminile e della donna nell’arte è approfondito negli altri racconti “Storia di una moglie” e “Anne”. Lo stile della Davis è stato definito “realismo sentimentale” perché, pur nella crudezza delle scene e delle ambientazioni, riesce a suscitare forti emozioni che rivelano i lati più celati dei personaggi.       

Francesco Roberto Lo Faro

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Nei tre racconti che compongono il libro troviamo come primo (in ordine cronologico) la storia di Hugh Wolfe, operaio sottopagato, e Deborah, donna follemente innamorata dell’uomo. Quest’ultima per amore ruberà un assegno al capo della ferreria dove lavora Hugh, il quale lo riceverà e verrà scoperto dalla polizia e rinchiuso in carcere insieme a Deborah. Hugh si toglierà la vita, mentre Deborah verrà presa in cura da una donna e rinsavita. Nella seconda storia troviamo protagonista una donna, la quale pensando di essere stata tradita dal marito, lo abbandonerà per diventare una cantante teatrale. Dopo aver fallito nella sua carriera, fuggirà a New York, dove troverà dinanzi una farmacia il cadavere del marito. Dopo questa orribile visione però si sveglierà, rendendosi conto di aver avuto solo un lungo e orribile incubo, trovandosi davanti il suo amorevole marito e i suoi due figli. L’ultimo racconto parla di una vedova, che stanca della propria vita decide di intraprendere un viaggio. In questo viaggio incontra numerose persone famose, che si mostrano essere assolutamente prive di un cuore. Nel treno in cui si trova qualcosa sfonda il tetto ferendo la signora, che verrà soccorsa da uno dei figli che casualmente si trovava lì.

Nei racconti si individua un linguaggio molto semplice, che talvolta risulta però incomprensibile. Le storie sono pesanti e tristi, ma nonostante le ambientazioni cupe e lo svolgimento lento, il libro risulta abbastanza scorrevole se ben studiato. La cosa che consiglio ai lettori è di rileggerlo più volte per comprenderlo a pieno, ma sconsiglio la lettura del libro a coloro che cercano il divertimento e l’allegria.

            Emanuele Corsaro

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Ci troviamo in West Virginia nel 1861 sull’orlo della guerra civile in uno scenario cupo. Le città erano coperte dal fumo delle fornaci, le fornaci un sinonimo di sporcizia e polveri tossiche. A lavorare in questo luogo infernale è il protagonista dell’opera: Hugh Wolfe. Quest’ultimo si concentra esclusivamente sul lavoro e afflitto dall’ignoranza decide di rubare alcuni scarti della del ferro per creare un’opera d’arte. Ne verrá fuori un capolavoro raffigurante  una donna inasprita dalla fatica e con la bocca spalancata in segno di dolore. Nonostante le condizioni indegne in cui lavoravano gli uomini non si è mai persa di vista la ricchezza dell’essere umano e la determinazione dei lavoratori nel continuare a lottare e amare. Le fornaci simboleggiano un luogo infernale e l’opera creata un modo per evidenziare l’esclusione del genere femminile. Un grido silenzioso di dolore scritto nella storia dell’uomo, la perdita di umanità simboleggiata dalla polvere di ferro, tanto sottile quanto pericolosa.

Simona Nicosia

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Una delle principali composizioni di Rebecca Harding Devis è “Polvere di ferro”, un libro al cui interno presenta tre racconti, che denunciano i disagi sociali del tempo e le minoranze emarginate, come operai e donne. Il primo racconto è “Vita nelle ferriere”, anche chiamato “La donna di Korl” e narra la storia di Hugh Wolfe, un operaio che lavora in condizioni disumane e sfinito dalla fatica del lavoro in fabbrica. Il testo racconta la vita di fine ottocento nel West Virginia, nelle città coperte dal fumo delle fornaci, presentando un mondo fatto di sudore, sporcizia, polveri tossiche. Wolfe è considerato anche il più “femminile” degli operai e, nella terrificante routine della sua vita, ruba gli scarti di metallo della fabbrica (il korl) per creare una statua di grande valore simbolico, rappresentante una donna robusta con le mani al cielo e la bocca aperta in un grido indistinto e soffocato. Oltre ai tragici episodi relativi al personaggio, il racconto ricostruisce e descrive le oscure immagini delle “sataniche” officine dove si svolge la sua vita. E’ un paesaggio infernale e infuocato, e le fornaci sembrano inghiottire tutte le anime che vi si avvicinano. Le immagini più ricorrenti sono quelle del fuoco e del fumo, del soffocamento, dello sporco e della nebbia e, nella loro totalità, ricordano le atmosfere dell’inferno dantesco. Il paragone è rafforzato dal simbolico riferimento a Farinata degli Uberti, la celebre figura del canto X. Tuttavia in questa discesa, sorprendentemente, non perdiamo mai di vista la complessità e la ricchezza dell’essere umano. Gli uomini e le donne che compongono questo pezzo di storia non sono inesorabilmente schiacciati dal loro terribile lavoro. Ne sono distrutti, segnati, costretti a misurarsi con la necessità e con il rischio di perdere se stessi, ma continuano a cercare un orizzonte, a lottare, ad amare. I racconti non contengono dolore fine a se stesso né ci portano ad una strada senza uscita, invece ci aprono una porta sulle condizioni dell’uomo, sulla sua mentalità e sul senso dell’esistenza, che viene negato, ma che con il sacrificio viene riconquistato. Gli altri due racconti sono “Storia di una moglie” e “Anne”. Il primo narra le vicende di un’aspirante artista che rinuncia ai suoi sogni in nome dei vincoli, di nuovo soffocanti, del focolare domestico, alternando ambizioni di libertà intellettuale e senso di dovere. Anne è invece una donna di mezza età che non riesce a superare la crisi dell’invecchiamento e la perdita irrevocabile della giovinezza, dei talenti mai sfruttati e del suo grande amore passato per uno scrittore. L’autrice, pur nella crudezza delle scene e delle ambientazioni, riesce a far suscitare emozioni molto intime e a far rivelare i lati più poetici e nascosti dei personaggi.

            Alfio Russo

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Il libro “Polvere di ferro” (Rebecca Harding Davis, Washington)  è ambientato durante il realismo americano. Ci troviamo nel pieno della seconda rivoluzione industriale, momento di sviluppo della società, il cui rovescio della medaglia è però lo sfruttamento del proletariato. L’opera si compone di tre storie diverse ma correlate fra loro: “Vita nelle ferriere” (o “La donna di Korl”), “Storia di una moglie” e “Anne”. La prima, probabilmente la più famosa, racconta di un operaio, Hug Wolfe, stremato dall’eccesso di lavoro, che con gli scarti delle officine plasma delle statue; la seconda di una donna che sogna il mondo del teatro e l’ultima di Anne, una madre soffocata dall’eccessivo zelo dei figli nei suoi confronti. Già dall’inizio della lettura una sensazione di angoscia e malinconia ha pervaso il mio animo; i toni cupi e lo stile diretto hanno efficacemente trasmesso il senso di prigionia che affligge i personaggi. Il filo rosso dei tre racconti è un fervente desiderio di libertà, di evasione da una vita triste e monotona. Sebbene io preferisca le storie a lieto fine ho molto apprezzato che venga rappresentata una terribile realtà, così agghiacciante da non offrire una scintilla di speranza.

            Giulia Rasconà

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Un classico incompreso. Possiamo definire così il testo della Davis, che scatta un’istantanea delle problematiche della società industriale americana classista del diciannovesimo secolo. In tal senso, è esplicativo il primo racconto dell’opera, dove, in un filo diretto con il lettore, una narratrice onnisciente parla dello sfruttamento dell’operaio gallese Hugh Wolfe, che cerca di esprimere la sua (inappagata) sete di giustizia creando una statua intagliata nel “korl”; aiutato da Deborah, commetterà un crimine, di cui purtroppo pagherà le conseguenze. L’andamento generale della narrazione è estremamente malinconico, lento, riflessivo, e si prolunga anche nei due racconti successivi “Storia di una moglie” e “Anne” che ritraggono lo spirito di indipendenza e di libertà delle classi più svantaggiate, con protagoniste due donne molto particolari e interessanti. Tuttavia, le due storie risultano talora contorte o complicate da seguire. Ma non è nulla che possa intaccare l’indiscussa grandezza dell’opera, che meriterebbe certamente maggiore fortuna

Salvo Sabella

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Rebecca Harding Davis è stata rivoluzionaria per la sua epoca: scrivere un racconto con lo scopo di fare aprire gli occhi alle classi più abbienti riguardo le condizioni dei gruppi “emarginati” come afroamericani, donne e nativi americani, non è da tutti.

Nonostante sia stato pubblicato quasi centosessant’anni fa, i temi trattati sono brutalmente attuali. Tutta la storia è narrata senza filtri, dando così al lettore una visione realistica di una cittadina americana nel bel mezzo della rivoluzione industriale, con differenze abissali tra gli abitanti che la popolano: borghesi acculturati e persone che guadagnano appena i soldi necessari per un pezzo di pane nonostante le lunghe e sfiancanti giornate di lavoro. Queste deformano il corpo di alcuni, come quello di Deborah, e distruggono la mente di altri, come quella di Hugh Wolfe, un operaio delle “officine del diavolo”, una ferriera situata nel Missouri, che compirà gesti estremi pur di ottenere la tanto agognata libertà.

            Alessia Pontorno

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In questa raccolta di storie brevi, pubblicate originariamente fra il 1861 e il 1892, di Rebecca Harding Davis sono custoditi i pilastri portanti della narrativa realista di cui lei nella letteratura americana è pioniera assoluta. Nelle vite dei suoi personaggi sono presenti i problemi che affliggevano la sua società si passa delle conseguenze negative dell’industrializzazione e della disumanizzazione del lavoro presenti in “Vita nelle ferrovie” al problema del ruolo della donna-madre che vuole emanciparsi che (sfortunatamente) è ancora di un’attualità sconcertante.

            Nicolò Monaco

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Rebecca Harding Davis è reputata una delle fondatrici del realismo americano. Nel suo romanzo “Polvere di ferro” affronta un argomento piuttosto doloroso e angosciante, ma in maniera riflessiva. Mette in evidenza i disagi arrecati dallo sviluppo industriale a tutti quegli uomini e quelle donne che svolgono il ruolo di operai in fabbrica. Non si tratta di un testo unico, ma di una raccolta di tre racconti. Uno in particolare racchiude l’essenza dell’intero romanzo. “Vita nelle ferriere” narra la storia di Hugh Wolfe, un proletario quasi privo d’animo e disumanizzato a causa delle terribili condizioni nelle quali è costretto a lavorare. Dimostra, tuttavia, di possedere una grande sensibilità attraverso dei piccoli gesti che compie giornalmente: ruba gli scarti di metallo della fabbrica per la realizzazione di una statua. Questa rappresenta una donna robusta con le mani rivolte verso il cielo e la bocca aperta in un grido soffocato, quasi straziato. E’ esplicita la volontà dell’autrice di sottolineare la misera condizione della donna, obbligata a lavorare in un ambiente infernale pieno di fumo, polveri tossiche e fornaci. Proprio queste caratteristiche rendono il romanzo unico nelle sue più sofferenti sfumature. Vengono promossi e sviluppati concetti nobili nella crudezza delle scene e dell’ambiente, esaltando in maniera singolare la spiritualità dei personaggi. Sicuramente un libro da non perdere: stimola alla riflessione, non appesantisce troppo la mente pur trattando un tema delicato nelle sue varie gradazioni e informa il lettore su un capitolo importantissimo della storia, che nella sua spiacevolezza va ricordato.

Lidia Di Rosa

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Sono tre i romanzi di cui si compone questo libro. Il primo narra di un uomo, Hugh Wolfe, dedito alla vita da operaio (sottopagato) in una ferriera. Deborah, follemente innamorata dell’operaio, per amore ruberà un assegno al proprietario della fabbrica e lo donerà al suo amato che verrà però successivamente sorpreso dalla polizia e condannato al carcere; anche Deborah, giudicata complice verrà incarcerata seppur per soli tre anni. Hugh non riesce a sopportare la vita in galera e per questo decide di affilare un pezzo di latta e di porre fine alla sua esistenza recidendo le proprie vene. Deb, psicologicamente esausta, verrà salvata da una donna e reintegrata nella civiltà. Il secondo racconto enuncia l’incubo di Hester, una donna sposata con un famoso dottore. I due si ritrovano costretti a dover traslocare a causa di un errore del marito, ma la mente della donna non riesce ad abbandonare il pensiero che il suo coniuge possa averla tradita con la collaboratrice sua pupilla. Per questo motivo Hester decide di abbandonare la propria famiglia per dedicarsi al suo sogno: quello di diventare una cantante di teatro. Il giorno del trasloco dunque la signora prende un traghetto che la porterà a New York: qui la sua prima teatrale sarà un grande flop e dunque deciderà di scappare e nascondersi. La sua attenzione sarà però poco dopo attirata da una grande folla davanti una farmacia: qui troverà il corpo morto di suo marito e si sentirà profondamente colpevole. Decide allora di fuggire, ma tutt’a un tratto… La donna si risveglia in un letto assistita da tutta la sua famiglia e con la febbre molto alta. È tutto stato un brutto sogno e il tanto agognato trasloco è stato annullato poiché Rob, figlio maggiore del dottor Manning, ha comprato per i due una nuova abitazione in cui potranno vivere. Il terzo romanzo riporta la storia di Anne, una vedova che è stata in grado di costruire da sé la fortuna della propria famiglia. Lei è però insoddisfatta della sua vita troppo regolare e decide perciò di intraprendere un viaggio all’insaputa dei suoi figli. In un treno lei incontra persone famose tra cui spicca la figura del noto scrittore George Forbes, di cui lei è sempre stata innamorata. Queste però si rivelano persone dalla mediocre correttezza morale e Anne è spiazzata quando qualcosa cade sul vagone e sfonda il tetto. La signora Palmer viene soccorsa da suo figlio che per coincidenza si trovava nello stesso corriere. Riportata a casa continuerà la sua vita da donna anziana rimpiangendo la giovinezza. Il linguaggio di cui si servono questi tre romanzi è spesso piano ma talvolta i periodi possono mettere in difficoltà il lettore in quanto complicati. I temi trattati sono crudi, di tipico stampo Americano e per questo non adatti a tutti. Ciò nonostante le storie, se ben digerite, risultano intrattenere il lettore dal momento che il finale di queste non è mai scontato. Sicuramente da tenere a mente il fatto che questo libro non è accessibile da tutti e per questo potrebbe sembrare noioso ad un lettore meno esperto. Difficilmente apprezzabile ma certamente ben strutturato, ti permette di entrare nella mentalità americana.

Giuseppe Pomara

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“Polvere di ferro” è un insieme di storie raccontate con la dolce umiltà di chi vuole immedesimarsi ma non ha l’arroganza di farlo se non ha vissuto in prima persona ciò che viene narrato. Ho apprezzato la costante allusione allegorica all’Inferno dantesco nel descrivere una condizione di vita difficile, quella dei lavoratori delle fabbriche. Si parla dei cosiddetti “geni incompresi”, tema che mi ha particolarmente colpito, destinati a rimanere nell’ombra solo per la condizione sociale e lavorativa in cui orbitano. È inoltre presente una concezione della donna superficiale, stereotipata, dedita solamente ai lavori domestici. Pur non condividendo questa visione, riconosco che possa essere giustificata dal tempo in cui si svolge la storia. Ad ogni modo, posso dire di aver ammirato uno dei personaggi femminili descritti, quello della donna d’altri tempi, eroica, trasgressiva e intraprendente. Al lettore è richiesto, per citare un passo del libro, di visitare il testo con “l’intelligenza che tutto vede e in nulla si vede coinvolta”, una partecipazione quasi passiva che non mi ha fatto adorare questo libro quanto il primo.

            Marta Rubbino

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Rebecca Harding Davis, vissuta dal 1831 al 1910, ci narra tre storie del realismo americano nel libro “Polvere di Ferro”. Le trame dei tre racconti si incentrano sulla voglia di libertà dei protagonisti e la ricerca della felicità ad ogni costo. Il finale delle narrazioni implica però una morale: spesso ricercare la felicità in ciò che non si ha non ci fa cogliere l’importanza di quello che già abbiamo.

Sono d’accordo in parte con l’autrice, è importante essere felici di ciò che si ha, ma anche sapere quando è il momento di perseguire un obiettivo per vivere meglio e non accontentarsi.

Un libro colmo di pensieri, senza dubbio introspettivo e che ti invoglia a continuare a leggere pagina dopo pagina.  Non lo consiglierei a chi ricerca una lettura senza pensieri, ma a chiunque abbia voglia di cimentarsi in un libro fitto di riflessioni e colpi di scena.

Giorgia Lo Castro

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Un romanzo generato e caduto nell’ombra come la speranza muta intrappolata nelle tre piccole storie che racchiude. La voglia di risorgere, l’interiorità di anime piegate al loro destino e nessun lieto fine se non la consapevolezza di dover percorrere quella strada che ognuno vede costruirsi dinnanzi a sé indipendentemente dalla sua volontà. Accettazione, questa è la parola chiave di un testo profondamente realista che ci conduce cautamente attraverso le emozioni di personaggi vittime di un ancestrale dissidio interiore. E in mezzo a tanto crudo cinismo, un filo conduttore ben teso rimane radicato nella mente dei personaggi: la bellezza. Neanche questa sfugge illesa al compulsivo sistema produttivo della rivoluzione industriale, ma ad esso si contrappone la morbosa necessità della redenzione. La Davis tuttavia, anche se con una certa amarezza, non lascia spazio alla sensibilità che porta gli uomini a sbagliare, illudersi o addirittura a morire. La meccanicità e le convenzioni regalano una vita tranquilla, ordinaria, dove tutto segue un ordine ben definito; eppure l’autrice ci racconta di “sensazioni strane” che come un lampo in piena notte colgono i protagonisti disorientandoli, gettandoli a forza dinnanzi ad un bivio che non lascia porte aperte, caratterizzato dalla presa di coscienza di un disagio squisitamente umano che li accompagnerà in un modo o nell’altro, per tutta la vita. Ma cosa rubare al pensiero di una donna che da protagonista, senza artifizi, ci sbatte in faccia la realtà del suo tempo? Forse una morale problematica o forse un pessimismo forzato o forse ancora la necessità di leggere la nostra vita in funzione alle esperienze nelle quali inciampiamo per caso e che inevitabilmente la macchiano, delineandone sempre più un profilo incorruttibile.

            Antonio Tiralosi

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Polvere di ferro di Rebecca Harding Davis narra la storia Hugh Wolfe, operaio in una fabbrica a Wheeling in West Virginia nel periodo antecedente alla guerra civile. La vicenda viene raccontata da una donna, la quale all’interno della vecchia casa in cui viveva Hugh insieme al padre, sta osservando la strada e riporta la storia della notte che ha cambiato la vita dell’operaio. Durante la narrazione, inoltre, l’autrice ci pone vari interrogativi sulle condizioni di vita in questi luoghi e sulle marcate differenze sociali dell’epoca, offrendo un interessante e realistico spaccato di questo momento storico. A questo racconto principale se ne aggiungono altri due nell’edizione italiana a cura di Livia Terracina sull’ambizione femminile alla libertà e all’arte. In conclusione ho gradito il libro, il quale non risulta troppo impegnativo, anche se non adatto ai più piccoli, per le profonde riflessioni che scaturiscono dalla lettura di esso.

            Luca La Bella

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“Polvere di ferro” è un libro che contiene al suo interno tre racconti, che narrano le vicende di tre personaggi i quali sono costretti a vivere una “non vita”, resa tale dal lavoro che svolgono e dall’ambiente in cui sono costretti a passare le ore. La più incisiva e famosa tra esse è la prima, intitolata “Vita nelle ferriere”, o donna di Korl, che narra la storia di un operaio che compie un lavoro dalla fatica disumana all’interno di una fabbrica e che, un giorno, usa degli scarti di materiale da lavoro per creare una statua: una donna con le mani protese al cielo e la bocca aperta in un grido gravato. Questo racconto, come gli altri dell’autrice, presenta ai lettori una realtà invisibile, fatta di fumo, polvere, sporco, una realtà soffocante, infernale. E presenta anche le persone che ne fanno parte, facendo uscire, come nel caso di questo primo racconto, la loro parte più artistica, sentimentale, umana, il tutto mantenendo, appunto, il realismo che caratterizza, anch’esso, i racconti della Davis. Storie di minoranze emarginate, come donne e operai, che nonostante tutto lottano per non perdere loro stessi e l’umanità di cui la vita ha tentato di privarli.

            Melany Zappalà

 

 

 

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Circoli dei lettori del torneo letterario di Robinson
di Treviso “5 di 42”
coordinato da Laura Pegorer
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Ho riflettuto a lungo su come esprimere il mio pensiero su ciò che ho letto e la prima cosa che mi è venuta in mente è: “Mi si è cariata perfino la dentiera (che non ho)”. In seguito ho riflettuto che l’argomento e lo stile erano tipici del periodo storico e letterario e mi sono un po’ vergognata di essere stata esageratamente critica. Ad ogni modo il mio è un giudizio sicuramente negativo.

Eugenia Paladini

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Il libro prende il titolo dal primo racconto che è senz’altro il migliore dei tre. 

Le descrizioni così incisive e crude del mondo dolente della miniera, degli uomini e delle donne ridotti a pura forza lavoro il cui sogno di riscatto viene punito con la morte, rendono il racconto pieno di passione e partecipazione.

Delle tre figure femminili al centro dei racconti la prima dopo la perdita dell’uomo amato e di anni di prigione, trova la serenità in una vita monastica. Per le altre due protagoniste i racconti hanno un diverso percorso: entrambe decidono di rinunciare ad una tranquilla vita familiare per inseguire il sogno di indipendenza economica e culturale, ma poi un evento esterno le fa tornare sui propri passi con un finale da “…e vissero felici e contenti”.  Sembra quasi che l’autrice abbia voluto farci intravedere degli altri possibili sviluppi delle storie e poi sia ritornata su ciò che era previsto e richiesto dal pubblico dell’epoca.

Laura Cavarzerani

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Lettura interessante ed impegnativa. Non tanto per i contenuti quanto per il bisogno sentito di dismettere il mio usuale atteggiamento piacevolmente interessato e critico (utile a soppesare l’interesse suscitatomi da un testo scelto per le mie letture quotidiane) per rapportarmi ai tre racconti della scrittrice americana con più analiticità. Mi è stato utile per contestualizzare i testi storicamente, per leggerli con la curiosità dovuta ad una scrittura femminile d’altri tempi che altrimenti mi sarebbe risultata a tratti inutilmente prolissa. Ne ho apprezzato (soprattutto nel primo racconto, La donna di Korl) la dura e realistica visione della realtà sia dei lavoratori che dei borghesi e l’accurata analisi (negli altri due, Storia di una moglie e Anna) dei moti d’animo di una donna inserita in una realtà, di certo privilegiata, di fine ottocento. Pure la scrittura, ricca di simbologie di carattere religioso e di un linguaggio sentimentale che mi risulta a tratti ridondante ma di metafore interessanti, mi ha mantenuto desta l’attenzione di lettrice.

Tiziana Niero

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Sorprendente per l’epoca il realismo crudo e cupo dell’autrice; i tratti poetici consentono la percezione di un pensiero mai rassegnato.

Roberta Zanatta

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Le macchine sono più vive degli uomini che si muovono come spettri assoggettati ad un lavoro disumano. Gli altri, i “ricchi”, descritti e osservati come una classe misteriosa a cui si guarda per rubarne la luce. La statua simbolo di una rabbia antica di una fame disperata la sua bellezza sta nell’autentico dolore di cui è testimone muta. Tutto il racconto è grigio come coperto di una polvere scura che assorbe ogni colore. L’amore è l’ultima illusione. In questa epopea di perdenti anche le donne subiscono la stessa sorte, sia che siano innamorate che mogli. Il mondo le accetta quando esse escono da se stesse e dai loro desideri. Anche gli intellettuali sono miseri, attaccati ai loro interessi sporcati dalla loro brama di possesso. Lettura a volte faticosa ma ne vale la pena. Decisamente temi moderni per il tempo.   

Natalina Mungari

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Per quanto sia piacevole rileggere le avventure delle quattro sorelle alcottiane, davanti al camino poi, devo dire che ho preferito molto di più i racconti di Rebecca Harding Davis perché li ritengo parte di quella narrazione ampia degli autori americani: sono racconti che offrono uno spaccato intenso non solo degli ambienti e delle situazioni ma anche della mentalità. Attraverso la narrazione di fatti, di luoghi e di persone si riescono a percepire le miserie umane, piccole e grandi, che rendono cupa l’atmosfera che, però, non riesce tuttavia ad abbattere totalmente la voglia di bellezza della e nella vita. Si intravede anche la possibilità, più desiderata che reale, di una redenzione attraverso i primi vagiti del tanto decantato ‘sogno americano’ in cui ad ognuno sembra offerta possibilità di riuscita e/o redenzione.

Mara Paladini

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Scrittura altrettanto scorrevole (rispetto a Rebecca Harding) , abbastanza fluida, interessante la triste realtà dei minatori con i loro sogni irraggiungibili ricoperti di cenere grigia, comunque tutto il libro è condito con malinconia e rabbia per situazioni difficili da accettare. 
Dei 3 racconti ho preferito il primo e mi è dispiaciuto che la storia sia stata così breve. 

Marta Marcazzan

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Rebecca Davis entra in un mondo crudo e disperato e lo fa con una fotografia forte e incisiva, ha una potenza di colori efficace, come sono… le figure dell’operaio ,della sua donna deforme e le ambientazioni degradate e cupe. Tuttavia… la scrittura della Davis è ridondante:

ogni aggettivo sostantivo o verbo, ma pure ogni concetto è ripetuto due volte, l’enfasi invece che approfondire o drammatizzare produce una monotona prolissità. E anche il montaggio è spiazzante: passiamo in 9 righe da una travagliata crisi di coscienza del protagonista, alla lettura, a colazione, da parte del dott. May, della sentenza a 19 di carcere e, nella proposizione successiva, ( non va neppure a capo la Davis), il soggetto  è bello che in carcere che guarda fuori della sua cella con i ferri alle caviglie.  Insomma materiali che sarebbero potuti stare in racconti di Jack London, finiscono calpestati dalla scrittura, per seppellire il nome dell’autrice in una fossa molto comune.

Laura Pegorer

 

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Circolo dei lettori del torneo letterario di Robinson
di Roncave “Le kamikaze”
coordinato da Elena Bassetto
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Il libro racchiude in se tre storie differenti nelle quali l’autrice cerca di descrivere il periodo difficile che attraversa la sua epoca storica. Le tre vicende hanno come comune denominatore l’arte; l’arte come rifugio in un mondo differente, più roseo, attraversato dalla bellezza che solo l’arte può racchiudere; ma l’arte può essere vista anche come via di fuga da un tempo non chiaro, offuscato dall’idea di uno slancio sociale verso il progresso comune e la consapevolezza di una diseguaglianza di ceti e di genere.

Nel primo racconto il protagonista è un uomo, ma a raccontarne la vita è una donna la cui identità rimane sconosciuta. Attraverso i suoi occhi descrive la storia di Deborah mite, reclusa e storpia che dona servizievolmente la sua invisibile esistenza Ad un operaio che lavora in una fornace del nuovo mondo, in un ottocento dove ci si chiede se è davvero degna di chiamarsi vita quella che lui e gli uomini del suo rango sociale sono costretti a subire per poter sopravvivere. Hugh Wolfe Il protagonista operaio, si rifugia nella scultura costruendo, grazie agli scarti di ferro recuperati dalla sua fornace, una figura che testimonia l’inganno del suo tempo. In un atto di disperazione commette assieme a Deborah, ciò che è stato definito crimine per la buona società dell’epoca ed è costretto a pagarne le conseguenze.

Il secondo racconto vede come protagonista Hetty, una moglie gentile che dopo la notizia del trasferimento dell’intera famiglia in un luogo a lei sconosciuto, per il fallimento lavorativo subito dal marito, si ritrova ad un tratto a riflettere sul senso della sua vita e alle rinunce di artista che ha dovuto affrontare per poter seguire l’amato e la sua famiglia. Hetty affranta e confusa tra il desiderio di mantenere salda la sua vita matrimoniale e il suo sogno di donna libera e artista, trova in una forma di rassegnazione la soluzione al suo dilemma.

Anche il terzo racconto vede come protagonista una donna; Anne una madre vedova non più giovanissima, che si occupa dell’azienda del defunto marito, ma con un sogno nel cassetto; nel ricordo di un amore giovanile romantico si imprime il desiderio di fuggire da una vita di obblighi, aspettative, una vita apparentemente serena ma che la incatena ad una mancata risoluzione di lei come donna libera, artista. Anche in questo caso la soluzione al suo dilemma viene risolta con una sottostante rassegnazione ad una vita pacata.

Il libro “Piccole Donne” rimane un libro intramontabile; la capacità dell’autrice di descrivere i personaggi, resta nel cuore di chi legge come un modello senza tempo; Tuttavia ho scelto il libro “Polvere di Ferro” in quanto trovo che Rebecca Harding Davis abbia saputo cogliere, attraverso la descrizione dei personaggi, la condizione umana del suo tempo. Credo inoltre che l’autrice abbia posto particolare attenzione alla donna, alle complessità della vita da affrontare quotidianamente, e al desiderio di rivalsa del genere femminile; una rivalsa che ancora oggi a volte trova ostacoli da affrontare.

Cristina

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Rebecca Harding Davis incontra Louisa May Alcott assieme ad altri intellettuali nel 1862, nel corso del suo primo viaggio a New York. Sembra questo l’unica cosa in comune tra le due autrici, ma scorrendo la loro biografia scopriamo che non è così. Ed allo stesso modo, apparentemente, non hanno molto in comune tre racconti venati di realismo come “Polvere di Ferro” e la storia per bambini che è “Piccole Donne”. Entrambe le autrici scrivono di donne, lasciando le figure maschili in secondo piano. I racconti di Harding Davis mostrano protagoniste di diversa estrazione sociale combattere le proprie battaglie o rinunciare alle sfide, affrontando se stesse, i propri limiti, i desideri che non si sono avverati, le scelte non fatte, drammaticamente provando a diventare ciò che sono nonostante i limiti del loro tempo.

I personaggi maschili di Alcott restano in seconda fila, mentre le quattro ragazze vengono descritte nel loro percorso di maturazione, con pregi e difetti, mentre affrontano piccoli e grandi eventi quotidiani. Chi di noi non si è identificata, da piccola lettrice, in Jo March, che vede davanti a sé un mondo infinito di possibilità, lei che vorrebbe fare “qualcosa di veramente splendido: che cosa, non ne aveva la minima idea, ma lasciava tempo al tempo”. Ecco perché il mio voto va a questa “storia della buonanotte per bambine ribelli” ante litteram.

Elisa Viaro

 

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