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Tralummescuro di Francesco Guccini

Giunti

 

Certamente intrigante la volontà di trascinare il lettore nel suo mondo fatto di un linguaggio inventato e di contesti tipici delle sue canzoni.

Sembra un tentativo di fotografare il suo mondo per non farlo perdere con la sua uscita di scena. Sentimentalmente l'idea convince, ma purtroppo la prova non è riuscita e ci si perde spesso ed anche con noia nelle parole inventate di una storia che non trascina.

Giuseppe Riccio

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Testo a tratti interessante ma lento e senza graffio. Ci si perde nella nostalgia di un passato che non

c'è più. L'uso del dialetto, qui, non avvicina e non seduce il lettore. La lettura risulta farraginosa. La

scelta tutta intellettuale di scrivere un testo così lontano dalla letteratura di consumo forse è voluta.

Qualche filologo potrebbe apprezzare.

Salvatore Volturno Gaglio

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"Il vento del tempo ha spazzato via tutto".  Guccini, il cantautore, si aggrappa alla memoria prima che il vento del tempo compia il suo lavoro di oblio.  Ne viene fuori un diario di ricordi, canzoni non scritte, tessere di un mosaico che non riesce a diventare un unico. Solo scorci di un tempo fluito,  il bisogno di attaccare acquerelli alla parete del tempo prima che davvero il vento spazzi via tutto.

Valutazione: 0 (con grande mestizia). 

Angela Falcone

 

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Le prime 60 pagine del libro, che sono le uniche che ho letto, mi sembrano scritte da un topografo in stato confusionale,

ho cercato di andare avanti ma mi sono arenata.

Non essendo io un critico letterario, ovviamente sono influenzata dal mio gusto personale. A me di “Amarcord” basta

Il capolavoro di Fellini. I libri, con qualche eccezione mi sembrano confezionati tutti con la stessa ricetta: scegli un luogo

che non sia una grande città, aggiungi qualche personaggio caratteristico, un poco di retorica sui bei tempi passati, un pizzico

di vernacolo e di lessico famigliare, magari qualche ricetta di cucina, ed il gioco è fatto. Penso che ognuno di noi potrebbe

scrivere un libro così, l’unica condizione è aver superato i 50 anni.

Olinda Orlando

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Tanto amato per la sua produzione musicale mi ha deluso come scrittore. La delusione è poca se confrontata alla tristezza di aver perduto l’oppositore dell’Avvelenata, il rivoluzionario della Locomotiva, il critico di Cyrano e tant’altro.

Ho ritrovato un vecchietto nostalgico che reputa interessanti i propri ricordi personali che racconta senza l’occhio critico ed ironico proprio del mio Francesco Guccini.

Fulvia Rizzo

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Ho iniziato il libro di Guccini con molto scetticismo, perché (so di essere una voce fuori dal coro), Guccini non mi piace, sebbene riconosco il valore delle sue canzoni. E l'ho letto fino in fondo, proprio perché era di Guccini, perché mi aspettavo di trovare la grandezza delle sue canzoni. In realtà, fino alla fine, mi è sembrato un libro noioso, inconcludente e difficile da leggere. Troppo pieno di dialetto e di note, che però non aggiungono niente al testo. Nessuna storia, non un bel testo, non una bella scrittura. Non mi è piaciuto già di per sé, ma se paragonato al secondo libro in gara, ne esce sconfitto ancor di più.

Stefania Oliveri

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Caro Maestrone, sei stato la colonna sonora della mia vita e tuttora lo sei. Le tue canzoni mi hanno fatto compagnia nei momenti felici e nei momenti tristi. Ho sempre pensato che tu sia più un poeta che un musicista. Adesso hai deciso di non comporre più, e va bene così, hai già dato tanto e le tue canzoni/poesie rimarranno per sempre nella mente e nel cuore di chi ti ha amato e ti ama.

Adesso vorrei chiederti perché hai scritto questo libro. Anch’io come te affetto da presbiopia senile scrivo memorie dei luoghi e delle persone della mia giovinezza ma le condivido solo con i miei amici e i miei compaesani i soli ai quali i miei ricordi possono suscitare emozioni.

Con il cuore di chi ti vuol bene non posso non darti 0.

Ernesto Melluso

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Capisco il desiderio di raccontare un mondo che non c'è più, un mondo che  manca ma un libro, a meno che non sia un saggio, racconta storie e di storie qui ne abbiamo poche manca del tutto la trama narrativa e quello che troviamo in queste pagine sono delle eterne descrizioni, faticose, metà in dialetto metà in italiano.
Questo racconto nostalgico, pieno di amarezza di un mondo che non c'è più è stentato, perché manca un qualsiasi ritmo. A tratti sembra un "si stava meglio quando si stava peggio".
Guccini, da sempre, con le sue canzoni racconta storie e in questo libro proprio le storie mancano. Confesso mi sono avvalsa del diritto di non finirlo.

Mariangela Federico

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Esercizio letterario poco convincente, la trama si risolve in un viaggio nostalgico nella memoria alla ricerca della poesia di un passato che non esiste più

Gli usi e costumi della società agreste dei piccoli borghi sono stati stravolti dal progresso, Guccini sembra volerne recuperare un valore che finisce per essere solo rimembranza malinconica di un tempo che fu

Cinzia Plaia

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Premetto che ammiro Guccini, però mi ha deluso. È un libro che parla di tempi passati, penso che qualcuno ci si potrebbe anche riconoscere, tuttavia durante la lettura mi sono annoiata , ho lasciato il libro a metà. Questo per via delle ripetitive descrizioni dettagliatissime.  

Beatrice Hurdyal

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Il romanzo è lento, lutulento e inutilmente faticoso. Guccini elabora una lingua artificiosa e non credibile, che giustappone un sermo dialettale spiegato e sviscerato nel dettaglio a citazioni letterarie e filologiche coltissime (molte delle quali spiegate anch’esse!). Il dialetto è utilizzato con un’attitudine più dialettologica che narrativa. La sintassi è frammentata e non lineare, guidata a tratti dalla vena tassonomica della voce narrante, a tratti dai suoi pensieri sparsi; e tuttavia – spiace dirlo – non tutti sono Joyce o Virginia Woolf! I riferimenti continui – quasi ossessivi – alla cultura materiale si risolvono nella maggior parte dei casi in un catalogo etnoantropologico più che in una vera rievocazione, e disturbano oltre ogni dire le innumerevoli note a piè di pagina (peraltro inutili, considerato l’amplissimo glossario conclusivo). Bello il capitolo sul dialetto; troppo lunghi (e con un’attenzione – di nuovo – più etnografica che narrativa) quelli sugli animali, sulle piante, sui cibi, sulle feste comandate. Insopportabilmente retrivo il capitolo sulla scuola, così come quelli sui ragazzi, sulle donne, sulle case di tolleranza: è come se si vagheggiasse nostalgicamente un’epoca in cui la mobilità sociale era un miraggio, come se la condanna atavica a vivere la stessa vita dei genitori e dei nonni fosse comunque preferibile ad ogni forma di modernità e di affrancamento dalla propria condizione. Mesta e in qualche modo toccante l’ultima parte, in cui si ripercorrono le vite e le morti dei coetanei della voce narrante, ma anche in questo caso la conclusione è scialba e priva di guizzi narrativi. Tutto si risolve in una rimembranza intimista e dolente, con una vena fortemente passatista e rancorosa da ‘si stava meglio quando si stava peggio’. Un libro indegno delle vette di poesia in musica raggiunte da Guccini nella sua lunga carriera di cantautore. Sembra incredibile che sia tra i finalisti del Campiello!

Pietro Giammellaro

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L’autore racconta la Pavana dei tempi andati in tutte le sue sfaccettature: culturali, sociali, linguistiche. Lo scrittore segue uno schema fisso, sia che parli di cibo, di lingua, di luoghi, di uomini o di donne: come erano un tempo, quello dei suoi ricordi infantili e di gioventù, e come sono ora. Il presente risulta sempre sconfitto di fronte ad una tradizione antica e per certi aspetti primitiva. Anche le volte in cui il tempo ha apportato dei miglioramenti sociali, vedi la condizione della donna o l’educazione dei figli, Guccini è lì a rimpiangere le donne che avevano ancora il tempo di cucinare e i bambini che crescevano a suon di urla e bacchettate. Tempi duri, ma autentici. Non emerge la capacità di distinguere cosa vada conservato gelosamente della tradizione e i reali progressi che lo scorrere del tempo ha apportato. È tutto un susseguirsi di rammarico, amarezza e nostalgia di luoghi, di tempi di persone, di cibi, ma soprattutto ricerca di autenticità, che Guccini ritrova solo tuffandosi nel passato. Le descrizioni sono lunghe, lente e fin troppo dettagliate. Stancano il lettore, che solo a tratti individua qualche pagina più scorrevole e coinvolgente. Ciò che manca veramente è una trama narrativa, un intreccio, dei personaggi, una storia vera e propria. Solo lente e pedanti descrizioni. La scelta di un uso cospicuo del dialetto, non dà al testo una pennellata di colore, ma costituisce un vero e proprio ostacolo linguistico. Lo dimostra i fatto che l’autore, oltre ad inserire le note a piè di pagina, aggiunge un lungo glossario alla fine del libro. Nelle ultime pagine si fa più vicina la presenza della morte, si percepisce quasi un lento ed incessante distacco da un presente del quale l’autore non sembra più voler far parte. Tutto il testo sembra convergere verso questa direzione: distacco dal presente e presagio di morte.

Caterina Pietravalle

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Confesso di fronte a questo libro per me difficile, di avere esercitato molti dei “diritti del lettore” di pennacchiana memoria: ho spizzicato, riletto, saltato pagine e infine deciso di non terminare il libro.

Annalisa Cannata

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No, non mi è piaciuto mi ha annoiato profondamente.

Protagonista di questo scritto (non lo definirei un romanzo) è la nostalgia.

Nostalgia del passato, rimpianto di quello che è stato, desiderio della propria terra natale e di tutti gli aspetti che ne facevano parte.

Il libro non ha una trama e le frequenti incursioni dialettali lo rendono di difficile lettura.

Silvana Bonomolo

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Non ho visto una trama narrativa, ma un continuo vagare nei ricordi slegato da ogni riferimento a un presente, un tuffo nostalgico nel passato che è come un’apnea da cui non si riemerge mai, scatenando in me il desiderio di brusca risalita in superficie. L’uso di un linguaggio meticcio, tra dialetto ed italiano, è interessante, ma per un libro intero mi è risultato stancante e di non facile comprensione.

Laura Mollica

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Si utilizza una lingua troppo difficile. Alcune parole sono segnate dall'asterisco altre sono inserite alla fine del libro in un vocabolario. Spesso, per non spezzettare continuamente il ritmo narrativo, il lettore meridionale che ha poca familiarità con quel tipo di dialetto, deve andare a intuito.

L'ambientazione è un omaggio a tutte quelle tradizioni contadine che si sono perse; il riferimento al non sprecare nulla del cibo; le strade non asfaltate ma che portavano ovunque; l'approccio con le ragazze; la desertificazione dei paesi... In molti casi ho riconosciuto i racconti che facevano i miei nonni.

Federica Costabile

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Non ho provato tanto interesse per questo libro perché trovo che le descrizioni del paese siano troppo dettagliate, interessante forse per coloro che hanno vissuto o che vivono in questo paese.

Vanessa Astorino

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Tra luce e oscurità, tra giorno e notte prende forma la realtà di Pàvana, terra d’infanzia amata alla follia da Guccini. Alberi, mulini, vino, mani callose, dialetto e volti. Questa era la vita di una volta. Una vita che il cantautore racconta, attraverso i ricordi e i suoni di quelle parole dialettali che ormai non usa quasi più nessuno, rivolgendosi non solo a qualche giovane lettore ma anche a se stesso. «Il fiume, ah, il fiume per esserci c’è ancora, lui» si legge con malinconia e consapevolezza del tempo che passa e che cambia le persone. Ma non le proprie radici, da conservare, custodire e, nel caso del libro di Guccini, da leggere.

Caterina Caparello

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Tralummescuro è il testamento letterario di Francesco Guccini. Nelle pagine si ritrova la stessa poesia e malinconia dei versi delle sue canzoni, le emozioni, gli odori, gli usi e la storia della sua Pavana. Lo consiglio a tutti gli appassionati del Maestro.

Roberta Siciliano

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Alla ricerca della Pàvana perduta. Un ritorno alla purezza di radici salvifiche quanto smarrite. Un romanzo intriso di melanconia come vuole l’ora dell’imbrunire richiamata nel titolo. Una ballata, sì, dai ritmi e dal linguaggio in chiaroscuro, proprio come un Paese che lungo la linea del tramonto smarrisce qualcosa di sé senza sapere ancora cosa porterà l’alba del domani, nell’amara consapevolezza che il meglio sia già venuto e non si è stati in grado di trattenerlo. La nostalgia si fa poesia crepuscolare tra queste pagine, che a tratti mi hanno evocato le atmosfere filmiche, immaginifiche, del buon Ermanno Olmi (sia pur con ambientazioni diverse) ne L’albero degli zoccoli, con le incursioni dialettali che danno sapore a una prosa del tempo che fu. Da lettrice e scrittrice calabrese innamorata di Corrado Alvaro e della poetica della “vita cruda” non posso non apprezzare un omaggio tanto sentito alla purezza del mondo arcaico, richiamato nella sua accezione pasoliniana. Tra lume e scuro sembra muoversi la traccia dell’inchiostro che ridà voce all’oblio, tratteggiando un tempo scomodo alle istanze dell’oggi. Un dizionario di cose perdute, una scatola di parole, gesti e valori riposti che fanno ancora bene all’anima.

Eliana Iorfida

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Una lettura all’inizio un po’ ostica per via del linguaggio vernacolare e a tratti desueto. Ciò che è desueto diventa via via evocativo e avvolge come il profumo della terra che l’autore descrive, portandoci con sapienza per mano attraverso tempi e luoghi smarriti ma sempre attuali nella nostra mente. Guccini affabula e coinvolge, e il suo scritto come per magia è impossibile da accantonare, stuzzicando ripetutamente la memoria e i cinque sensi. Un romanzo che è insieme dipinto, canzone e poesia. Un flusso di parole intenso, icastico e coinvolgente.

Marta Fanello

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Dalla luce al buio, all’imbrunire di una civiltà e di persone che non ci sono più. Dove sono quelle strade, quei posti, gli animali, le piante, le tradizioni, le persone, i mestieri, il cibo di quei tempi?  Tutto, tutti, rivivono, in queste righe. Vivo è il ricordo che Guccini ha di questo mondo, di quella che a me è sembrata la sua Spoon River: Pavana. Di Pavana, fa rivivere anche il linguaggio: il libro è scritto in italiano e dialetto pavanese. È questa l’unica, piccola difficoltà che ho incontrato nella lettura, fino a quando non mi sono lasciata trasportare da Guccini e dal bel ritmo del suo “aricordare”. E mi sono sentita, alla fine, come quel bimbo di una sua canzone: “gli occhi guardavan cose mai viste/ e poi disse al vecchio con voce sognante/ mi piaccion le fiabe, raccontane altre!”.

Valeria Riccio

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Manzini, settimo livello! Sia chiaro, mi riferisco al divertimento. Non sono mica Rocco Schiavone…

Valeria Ricci

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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